Songs For The Deaf: L’Ultimo Disco Rock Alternativo
Per molti fu un fulmine a ciel sereno ma il successo dei Queens Of The Stone Age nel 2002 non fu casuale. Tanti tasselli andarono al loro posto nel momento giusto contribuendo a fare di “Songs For The Deaf” uno dei dischi più celebrati degli ultimi 20 anni. Per coloro che furono cresciuti dal rock alternativo di Mtv e Videomusic fu l’ultimo grande disco rock, non accorgendosi che fu invece il disco che chiuse la lunga stagione “alternative” rock nata nel 1991 con l’esplosione di “Nevermind” dei Nirvana. Dopo l’uscita di “Songs For The Deaf” il mondo musicale mutò pelle, togliendosi di dosso definitivamente i retaggi anni 90, percorrendo nuove strade e lasciando la “generazione X” orfana di nuove band di cui innamorarsi. Ma è la vita, nel bene e nel male…
I Queens Of The Stone Age nacquero dopo lo scioglimento dei Kyuss e dopo che il leader, chitarrista e cantante Josh Homme si trasferì a Seattle per riprendere a studiare. Lì entrò come secondo chitarrista degli Screaming Trees di Mark Lanegan e iniziò a collaborare con i musicisti della zona ad un suo nuovo progetto. Fece alcuni concerti in città e poi decise di tornare alla natia Palm Desert, ad un’oretta di strada da Los Angeles, in pieno deserto. Riprese i contatti con i musicisti locali e chiuso nel Rancho De La Luna iniziò a jammare formando il progetto Desert Sessions.
Mentre la natura Desert Sessions è quella di coinvolgere il maggior numero di musicisti quella dei Queens Of The Stone Age (in principio chiamati Gamma Ray) è, inizialmente, esattamente l’opposto. Nel disco d’esordio Josh scrive e suona tutto eccetto la batteria assegnata al fidato Alfredo Hernandez, con lui anche nei Kyuss. A fine registrazioni si aggiunge anche Nick Oliveri, anche lui ex Kyuss, e il progetto solista diventa finalmente una vera e propria band. Il primo disco viene accolto con entusiasmo dalla comunità stoner rock, ai tempi piuttosto ristretta sia nel pubblico sia nelle band in attività.
L’album viene inizialmente pubblicato dalla Loosegroove di Stone Gossard dei Pearl Jam e stampato in vinile dalla label di Frank Kozik Man’s Ruin, specializzata in edizioni limitate. In Europa arrivò con il marchio Roadrunner, che contribuì a lanciare il nome della band tra gli appassionati di metal e, soprattutto, di nu-metal genere in voga tra i giovanissimi dell’epoca. Per il secondo disco ottennero un contratto major con la Interscope spiazzando i puristi che avrebbero giurato che un ex Kyuss non avrebbe più lavorato con etichette grosse. Avevano sottovalutato l’ambizione di Josh.
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Il secondo disco “Rated R” venne pubblicato nel 2000 e fece immediatamente impazzire la stampa specializzata britannica ai tempi ancora agguerrita ma orfana degli scandali del brit-pop. La coppia Homme-Oliveri era il sogno delle riviste come Kerrang e NME che potevano mettere in copertina musicisti controversi, tossici, spiritosi e, perchè no, dotati di un discreto sex appeal. “Rated R” è un lavoro più corale rispetto all’esordio e vede la partecipazione di Mark Lanegan e Barret Martin degli Screaming Trees, Rob Halford dei Judas Priest (era nello studio affianco a registrare ed è stato coinvolto nei cori di “Feel Good Hit Of The Summer”), Peter Stahl (Scream, Wool, Goatsnake) e vecchi amici come Chris Goss e Dave Catching. Dave Grohl si propose per suonare la batteria ma la band non volle che i QOTSA diventassero “la nuova band dell’ex Nirvana” e declinarono con grande coraggio l’offerta. A Dave però bastò dire in una intervista che i QOTSA erano i nuovi Nirvana per smuovere immediatamente l’attenzione degli addetti ai lavori. “Rated R” andò bene ma non benissimo: furono scelti buoni singoli (su tutti “The Lost Art Of Keeping A Secret”) ma i videoclip (ai tempi decisamente importanti) non erano niente di che. Poveri di budget, poveri di inventiva e poco comunicativi per un pubblico generalista.
La stampa inglese non li mollava e ogni scusa era buona per parlare del malefico duo rock & roll: la versione stoner rock dei fratelli Gallagher.
Forti delle proprie conquiste e decisi a battere il ferro finché caldo Josh e Nick si chiusero in studio a Los Angeles con il produttore Eric Valentine e due assi entrati stabilmente in formazione (almeno nel disco): Mark Lanegan e Dave Grohl. Dave, oltre ad amare i QOTSA, era in un momento di crisi con i Foo Fighters. La band all’epoca aveva pubblicato tre album e non era ancora la macchina da stadio che è oggi; volenteroso di cambiare aria iniziò a fare visita al Rancho De La Luna e a farsi stimolare dall’ambiente rilassato e rilassante che già aveva frequentato qualche anno prima ai tempi del disco degli Earthlings? del suo vecchio amico Peter Stahl (erano assieme negli Scream prima dei Nirvana).
Con una formazione così non poteva che venire fuori un capolavoro e così fu.
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Il concept di “Songs For The Deaf” è basato sul costruire una ipotetica colonna sonora di un viaggio nel deserto attraverso le stazioni radio della zona, fra predicatori religiosi, speaker messicani e stranezze assortite. Proprio per questo le canzoni sono di vario genere e cantate a più voci, garantendo una varietà tipica da “stazione radio”. Anche la provenienza dei brani è disparata e buona parte viene da differenti “Desert Sessions”.
L’album viene anticipato dal videoclip di “No One Knows” il cui riff è già presente nel brano “Cold Sore Super Stars” delle Desert Sessions 7 del 2001. “No One Knows” fu uno shock immediato per tutti coloro che guardavano Mtv ai tempi: il videoclip co-diretto da Michel Gondry finalmente metteva in luce al meglio il carattere guascone del quartetto e la straordinaria alchimia musicale raggiunta. Il riff detterà scuola nelle produzioni indipendenti del decennio successivo, così come la ritmica. Ma ogni momento è da manuale di come si confeziona un perfetto singolo rock.
Acquistando il disco (o scaricandolo da Napster come molti fecero ai tempi) si rimaneva colpiti dalla qualità assoluta della proposta. Anche la criticata produzione è funzionale per garantire un aspetto organico e reale ad un disco che con dei suoni migliori forse sarebbe sembrato meno naturale. Pensate che la batteria fu registrata in due momenti separati: prima solo i fusti e poi i piatti. Questa soluzione permette un migliore controllo della batteria nel mix senza che i piatti disturbino troppo i volumi e fu un espediente usato già nel precedente disco diventando una soluzione usata ancora oggi da parecchi produttori.
La performance di Grohl è assolutamente stellare e ci fa rimpiangere che non sia fisso come batterista. Basta puntare il CD sulla traccia numero 4 “Song For The Dead” con quell’intro che cita “Slip It In” dei Black Flag e che verrà studiata da tanti giovani batteristi in erba.
O lo splendido tempo in 5/4 di “Hangin’ Tree” che suona come una stralunata jam fra Soundgarden e Screaming Trees. Ma tutto il disco è stracolmo di finezze batteristiche che meriterebbero di essere analizzate una per una.
L’uso delle tre voci è un espediente molto saggio per donare varietà e il giusto colore a brani di natura diversa. A Nick Oliveri vengono date le canzoni più “hardcore punk” data la sua militanza in band del genere come Dwarves: “You Think I Ain’t Worth a Dollar, But I Feel Like a Millionaire”, “Six Shooter” e la flower punk “Another Love Song”. Mark Lanegan con il suo vocione blues/soul riesce a plasmare ogni stile sulla sua voce: le già citata “Hangin Tree”, “Song For The Dead” e la stravagante stoner ballad “God Is In The Radio”. Al resto pensa Homme, che non sarà il miglior cantante del globo ma ha una voce senz’altro caratteristica.
Scorrendo i crediti del disco si rimane sconvolti dalla quantità di ospiti presenti, molti di più che in una normale Desert Sessions. Alain Johannes a cui prima o poi bisogna dedicare uno speciale e la sua compianta compagna Natasha Shneider, entrambi negli Eleven e backing band di Chris Cornell nel periodo Euphoria Morning. Paz e sua sorella Ana Lenchantin. Paz la ricordiamo negli A Perfect Circle, Zwan e ora nei Pixies. Ana la trovate come musicista session in almeno 10 dischi che avete in casa (ve lo auguro). Dean Ween dei cultissimi Ween. Molly McGuire dei Mondo Generator. Gene Trautmann dei Miracle Workers e quasi batterista dei Kyuss. Brendon McNichol e Chris Goss dei Masters Of Reality. E poi ci sono i finti dj che introducono le canzoni: Blag Dahlia (Dwarves), Casey Chaos (Amen), Twiggy Ramirez (Marilyn Manson), Lux Interiors (Cramps), Jesse Hughes (Eagles Of Death Metal).
Niente è lasciato al caso e per una volta è palese come la cura dei dettagli ha portato ad un risultato fantastico, adatto sia alle masse che ai rockettari più esigenti. E proprio per questo viene ricordato come l’ultimo grande disco rock che ai tempi mise d’accordo praticamente tutti. Se questo è in parte vero è perchè “Songs For The Deaf” è l’ultimo grande disco appartenente a quel decennio fatato che ci donava settimanalmente dischi di rock alternativo pazzeschi. Non è un caso che i nomi citati siano tutti dei pesi massimi di quel genere, capaci di fare squadra per la ottima riuscita di un disco da tramandare ai posteri. Proprio per questo motivo è però anche il disco che chiude quell’era i cui semi erano stati gettati negli anni 80 da Husker Du, R.E.M., Pixies, Minutemen, Replacements, Dream Syndicate, Thin White Rope, esplosero con i Nirvana e la scena grunge e inevitabilmente appassirono con l’arrivo di nuovi trend giovanili (nu-metal, post-grunge, stoner rock, il revival rock, punk funk). “Songs For The Deaf” fu proprio uno sparti acque dove niente fu come prima. Lo stoner rock provò a cavalcare quel trend cercando invano di mettere donnine discinte, ritmi mazurche, videoclip buffi per vendere dischi (giusto i Red Fang colpirono nel segno ma il gioco durò il tempo di due singoli) mentre i giornalisti si buttarono nei nuovi trend sempre meno “alternativi” (Franz Ferdinand, LCD Soundsystem, The Hives, Wolfmother, White Stripes…).
Cosa successe ai Queens Of The Stone Age dopo “Songs For The Deaf”? Con grande onestà intellettuale Josh Homme decise di non ripeterne la formula, assemblò una squadra di professionisti al posto di Oliveri (cacciato perchè inaffidabile), Grohl (rimise in moto i Foo Fighters che da quel momento in poi iniziarono a riempire gli stadi) e Lanegan (sempre più lanciato nella carriera solista) e iniziò un suo personale percorso musicale che lo portò in palchi giganteschi e ad avere una fan base sempre più grande. Ma con la consapevolezza che la magia del terzo disco non tornerà mai più, esattamente come quella magia che rendeva speciale i Kyuss e che sarebbe impossibile ricreare.
Qualcosa di simile fu il progetto Them Crooked Vultures in cui Grohl e Homme tornarono assieme accompagnati da John Paul Jones dei Led Zeppelin in uno spettacolare disco purtroppo irripetibile.
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