I 20 migliori dischi del 2019
Preparare la lista dei migliori dischi dell’anno passato è sempre un’impresa complicata ma senza dubbio divertente e stimolante. E’ difficile stabilire dei criteri di oggettività per cui ci siamo imposti delle linee guida: i dischi scelti dovevano essere originali e far parte di un percorso artistico che mette in luce esperienze personali, non solo dal punto di vista del vissuto ma anche in relazione alla carriera musicale dell’artista. Ne è venuta fuori una lista viva e particolare con la speranza che il lettore trovi nuovi spunti di ascolti o magari riprenda in mano dischi che aveva valutato superficialmente.
1 – Lingua Ignota – Caligula (Profound Lore)
Scambiata erroneamente da molti per l’ennesima variante al cliché dark lady di scuola Chelsea Wolfe/ Zola Jesus, Kristin Hayter, in arte LINGUA IGNOTA, ha esordito ufficialmente nel 2017 con il massacrante “All Bitches Die”. “Caligula” è un viaggio personale di violenza, depravazione, abusi musicato come un’opera in cui la musica estrema (ma non solo: basta pensare all’uso della “Marcia Funeraria per la Regina di Scozia” di Purcell) viene usata come ingrediente per mettere in scena un paesaggio infernale. Musicalmente è definibile come un inedito mix di Diamanda Galas, Nico, black metal, Swans, elettronica, ambient, drone suonata da The Body, Full Of Hell e Uniform e interpretata con enfasi drammatica da Kristin. Se nel 2018 siete rimasti incantati da Anna Von Hausswolff, nel 2019 sarete devastati da Lingua Ignota. Il disco più emozionante, estremo e originale del 2019.
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2 – Deafkids – Metaprogramação (Neurot)
Quando pensiamo al Brasile inevitabilmente vengono in mente i Sepultura o Caetano Veloso. I Deafkids probabilmente non entreranno nel pantheon delle star locali ma con “Metaprogramação” propongono una nuova versione del sound tribale, psichedelico ed heavy del loro paese: pensate ad una jam session percussiva tra Ministry, Big Black, Fudge Tunnel, Godflesh e Hawkwind, Gnod, Butthole Surfers suonata come se la fusion fosse eseguita da robot anzichè da Miles Davis. Un disco che viene dal futuro e portato sulla Terra dalla sempre attenta Neurot.
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3 – Hildur Guðnadóttir – Chernobyl Soundtrack (Deutsche Grammophon)
La miniserie HBO dedicata al disastro di Chernobyl è riuscita ad inchiodare il pubblico grazie al suo modo originale di trattare un fatto di cronaca che cambiò il mondo usando un linguaggio cinematografico derivato dall’horror, dal thriller e dalla fantapolitica. Parte del merito va anche alla colonna sonora curata da Hildur Guðnadóttir, violoncellista islandese candidata all’Oscar per il suo lavoro nel film Joker e collaboratrice di
Jóhann Jóhannsson , Sunn O))), Pan Sonic, Mum e tanti altri. Hildur si è posta la domanda “se fosse possibile ascoltarla, come suonerebbe la radioattività?”, contando che il suo impatto è sia invisibile che devastante la risposta non era semplice. Decise di affrontare la questione a modo suo: andando in Lituania in una centrale nucleare semi-dismessa e registrandone i suoni. Da qui è partita per creare la colonna sonora, priva di strumenti; l’unica eccezione è l’uso del coro, per far risaltare il lato umano della tragedia. Una colonna sonora che è un’opera d’arte.
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4 – Kate Tempest – The Book Of Traps And Lessons (American)
“The Book Of Traps And Lessons” è l’ennesimo capolavoro su cui svetta il sigillo American Recordings e la produzione di Rick Rubin, pur non essendo propriamente un disco rap. Il titolo ci aiuta: è un libro. Anzi un audio libro. “The Book Of Traps And Lessons” è la risposta alla musica da 15 secondi proposta/imposta dalle storie di instagram, dallo shuffle di Spotify, dai video di TikTok, dalla distrazione causata dalla mole di informazioni. Qui dentro sono contenute centinaia di parole e frasi che vi costringeranno all’attenzione, al repeat, al pensiero. Le basi minimali e la voce declamatoria di Kate vi entreranno pian pianino nelle orecchie trovando appigli in una parola, in un suono, in una battuta, costringendo il vostro cervello ad un esercizio mentale stimolante e originale. Un disco che rappresenta al meglio questo 2019. Un necessario stop prima di finire in un burrone.
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5 – Sunn O))) – Life Metal (Southern Lord)
Dopo essersi arenati con “Kannon”, che per la prima volta non portava innovazioni all’enorme sound dei Sunn O))), la band è corsa immediatamente al riparo: ha prenotato lo studio di Steve Albini e per la prima volta ha registrato in diretta le proprie visioni mistiche, senza ausilio di overdubbing, ritocchi e assemblaggi. Con loro anche la violoncellista Hildur Guðnadóttir che ha donato un nuovo suono apocalittico alle chitarre del duo. Il risultato è il loro miglior disco dai tempi di “Monoliths & Dimensions” e nuova pietra di paragone del genere drone-metal, in più con un suono ancora più enorme grazie al sapiente lavoro di Albini. Possono piacere come no ma arrivare fino in fondo al disco è un’esperienza che non ha eguali.
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6 – Big Brave – A Gaze Among Them (Southern Lord)
Il genere di riferimento dei canadesi Big Brave è abbastanza indefinibile e si muove a cavallo tra post rock, post metal, cantautorato dark e sperimentalismi noise. Per sommi capi diciamo una versione più heavy di Chelsea Wolfe e Emma Ruth Rundle, con richiami a Godspeed You Black Emperor (non a caso al contrabbasso troviamo Thierry Amar), The Body e Sunn O))). Ma al di là dei riferimenti, “A Gaze Among Them” è uno dei dischi più belli di questo 2019, un viaggio oscuro che merita di essere percorso con pazienza e dedizione.
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7 – The Comet Is Coming – Trust in the Lifeforce of the Deep Mystery (Impulse)
Nel 2018 i Sons Of Kemet fecero furore nelle classifiche di fine anno, costringendo i non jazzofili all’ascolto di una musica che solitamente ignorano. Quest’anno la stessa sorte tocca a “Trust in the Lifeforce of the Deep Mystery” secondo disco dei The Comet Is Coming. Entrambi i progetti vedono protagonista il sassofono di Shabaka Hutchings, londinese di origine caraibica, qui con l’aggiunta del percussionista Betamax e del tastierista Danalogue, in realtà i veri motori del progetto. The Comet Is Coming mettono in comunicazione il mondo dell’hiphop sperimentale di Dalek, Death Grips, Anguish con Sun Ra e Alice Coltrane, generando un nuovo approccio alla materia che accontenterà soprattutto gli ascoltatori più giovani e meno snob.
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8 – Black Midi – Schlagenheim (Rough Trade)
I giovanissimi Black Midi grazie alla loro apertura mentale e alla perizia tecnica riescono (furbescamente o meno, non è ancora chiaro) a mettere d’accordo tutti. Quelli intorno ai 50 adoreranno i riferimenti a King Crimson, Pere Ubu, Talking Heads, This Heat, DNA, Mars, David Bowie, The Fall, Devo, Can, Kraftwerk; sembra di essere nel periodo più sperimentale ed ispirato del post-punk. Se alcuni trenta/quarantenni alternativi troveranno tutto ciò poco appetibile allora ecco una spruzzata di Shellac, Jesus Lizard e Slint, ripescando un sound “noise” che si è rinfrescato di recente grazie agli Idles. Poi mettiamoci i bei visini puliti e l’energia tipicamente post adolescenziale e avrete il prodotto definitivo in grado di accontentare dai quindicenni ai sessantenni.
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9 – Kim Gordon – No Home Record (Matador)
Kim Gordon alla veneranda età di 66 anni pubblica il suo primo disco solista: è un record? Probabile, anche se non è la prima uscita al di fuori dei Sonic Youth: ricordiamo, per esempio l’ottimo progetto Body/Head con Bill Nace e i Glitterbust con Alex Knost. “No Home Record” è tutta farina del sacco di Kim, aiutata da Justin Raisen (produttore di Sky Ferreira e Charli XCX), qualche batterista (tra cui Stella Mozgawa delle Warpaint) e pochi altri. E suona come un mix di tutte le esperienze della Gordon virate sintetiche. “No Home Record” è un disco che dovrebbero fare le varie Sky Ferreira e Charli XCX se avessero le palle e fossero vere artiste. Ma di Kim Gordon ce n’è una. Nel bene e nel male.
10 – Beth Gibbons – Henryk Gorecki Symphony No. 3 (Domino)
Symphony No.3 composta dal polacco Henryk Gorecki nel 1976 per commemorare le vittime dell’Olocausto, conosciuta anche come “sinfonia delle canzoni dolenti”, è fra i lavori più famosi di musica classica contemporanea. Il 29 Novembre 2014, la Polish National Radio Symphony Orchestra diretta da Krzysztof Penderecki, ha suonato in concerto la sinfonia con ospite alla voce la cantante dei Portishead Beth Gibbons . La qualità della performance è ovviamente altissima, con Beth impegnata a cantare dolentemente in polacco e mostrandosi come un’interprete duttile, umile e seria. “Symphony No. 3” è un disco a suo modo importante perché sposta l’asticella della musica popolare fruibile dal grande pubblico al di là delle solite etichette per appassionati come Deutsche Grammophon, aprendo le porte anche ai contesti più rock/indipendenti grazie alla pubblicazione su Domino.
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11 – Nick Cave – Ghosteen (Ghosteen LTD)
“Ghosteen”, scritto in collaborazione con Warren Ellis, è il primo disco di Nick Cave realizzato dopo la morte del figlio Arthur (il precedente “Skeleton Tree” uscì dopo ma fu realizzato prima del tragico incidente). Non può essere un album allegro, se mai ci aspettassimo qualcosa di allegro da Cave. E’ però un album di catarsi, un flusso sonoro senza un ritornello, un refrain, un appiglio a cui sostenerci per poterlo amare. Fin dalla copertina insolitamente colorata non è facile trovare un feeling con il disco. Realizzato esclusivamente con tappeti di synth, pianoforte e voce “Ghosteen” è un’opera che può essere avvicinata ai lavori più sofferti di Scott Walker e degli Swans, un disco dark e profondo, cinematico nel suo sviluppo orizzontale e, soprattutto, necessario. Necessario perché, se mai ce ne fosse bisogno, mostra un artista vero che senza la sua arte sarebbe morto. E che grazie alla sua arte ci tiene in vita. Ponendoci domande, facendoci commuovere o semplicemente facendoci provare noia e disgusto.
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12 – Liturgy – H.A.Q.Q. (YLYLCYN)
Troppo limitante includere i Liturgy di Hunter Hunt-Hendrix nel genere black metal. Il progetto ha ormai scavalcato i confini inglobando post-hardcore, prog, nowave, noise e tanta elettronica. In particolar modo H.A.Q.Q. (acronimo di Haelegen Above Quality and Quantity) gioca con i glitch, gli errori digitali, per destabilizzare l’ascoltatore. Ma non solo: un paio di brani sono interamente suonati al pianoforte, eppure trasmettono più black metal di quanto facciano i Dimmu Borgir. Un disco che è il parto di un artista ambizioso e controverso, che ama mettersi in gioco e spiazzare il pubblico con un suono fastidioso, dissonante e affascinante.
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13 – Fire! Orchestra – Arrival (Rune Grammofon)
Fire! Orchestra sono i Fire, ovvero Mats Gustafsson, Johan Berthling e Andreas Werliin, assieme ad un nutrito numero di ospiti provenienti dalla scena jazz, noise e impro mondiale. Nel nuovo “Arrival” dimezzano gli elementi focalizzandosi su un quartetto d’archi, un trio di clarinetti, sassofono, tromba, basso, batteria, tastiera e le voci di Mariam Wallentin e Sofia Jernberg. I tempi sono lenti e notturni, la musica pesca suggestioni da jazz, world e funk. Oltre agli ottimi brani autografi troviamo le cover di “Blue Crystal Fire” (Robbie Basho) e di “At Last I Am Free” (Chic, ma riletta anche da Robert Wyatt). Più che un disco è un lento viaggio intorno al mondo. Un gioiello, come il resto della loro discografia.
14 – Fontaines D.C. – Dogrel (Partisan)
Prendete The Fall, Joy Division, The Cure, The Clash mescolateli per benino e fateli cantare da un irlandese e avrete “Dogrel”, primo disco dei dublinesi Fontaines D.C.. Meno noise degli Idles, hanno dalla loro un pugno di ottime canzoni, varie e appiccicose e la stessa casa discografica (la Partisan). A fare la differenza è però il cantato pigro e strascicato di Grian Chatten che con quell’accento può cantare quello che vuole e risultare irresistibile. “Dogrel” è un disco che conquista ascolto dopo ascolto e che, in qualche modo, rappresenta al meglio il 2019 punk rock inglese/irlandese.
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15 – Big Thief – Two Hands / U.F.O.F. (4AD)
In un’annata buona di dischi folk/pop con voce femminile (fino all’ultimo hanno rischiato di entrare in lista Sharon Van Etten e Angel Olsen) svettano i Big Thief, che si confermano come una delle band più interessanti di questi anni. Non con un disco ma addirittura con due e che arrivano a poco tempo dall’ottimo debutto solista della cantante Adrianne Lenker. Tutta questa abbondanza non inficia la qualità finale ma, anzi, soddisfa l’ascoltatore con una discreta quantità di canzoni memorabili. Tra folk americano e alternative rock anni 90, i Big Thief sono una band destinata a rimanere e a guadagnarsi anno dopo anno uno spazio nella storia del rock. Da seguire senza riserve.
16 – Torche – Admission (Relapse)
“Changes Come” dicono in uno dei brani più del nuovo disco. Diventiamo tutti vecchi e con noi anche quelle simpatiche canaglie dei Torche, coloro che hanno trasportato lo sludge di Miami in lidi più felici rispetto allo standard abituale del genere con album potenti e orecchiabili come “Meanderthal” e “Harmonicraft”. Admission è un disco più meditato, meno d’impatto, con inaspettate influenze shoegaze (la title track, scelta anche come spiazzante singolo) e grunge (“Times Missing”, che ricorda i Soundgarden più lenti) e ci rivela uno Steve Brooks disposto a mettersi in gioco e a nudo. Con questa mossa inaspettata i Torche portano lo sludge nella sua fase matura.
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17 – Drab Majesty – Modern Mirror (Dais)
Annata non particolarmente ricca per quanto riguarda la retrowave che viene sintetizzato (letteralmente) nel terzo disco dei Drab Majesty “Modern Mirror”. La band di Andrew Clinco, da anni collaboratore di Emma Ruth Rundle, è totalmente immersa nel sound anni 80 di stampo synth-pop e darkwave di The Cure, Siouxsie and the Banshees, Echo and the Bunnymen e consegna un disco credibile e orecchiabile, che riesce a suonare futuristico esattamente come facevano gli ormai lontani predecessori. Consigliato non solo ai nostalgici.
18 – King Gizzard And The Lizzard Wizard – Infest the Rats’ Nest (Flightless)
King Gizzard & The Lizard Wizard sono una delle band più importanti degli ultimi 10 anni: dal 2012 a oggi hanno pubblicato 15 dischi, nessuno brutto e nessuno uguale all’altro. Psichedelia, prog, esperimenti, pop, elettronica: è impossibile incasellare la band in una categoria se non quella del “rock totale” di stampo Zappiano. Con “Infest The Rats’ Nest” invadono anche una categoria che per ora non avevano esplorato completamente: il metal. Ovviamente approcciano il genere a modo loro non assomigliando in particolare a nessuna band. Ci sono riff stoner rock, altri più vicini al thrash metal, quasi come una versione con i suoni più garage degli High On Fire. Il risultato è ottimo e conferma i musicisti della band come dei virtuosi della libertà espressiva. Se anche il pubblico del rock avesse la mentalità dei King Gizzard forse nei negozi di dischi smetterebbero di chiedere Pink Floyd e Genesis in favore di nuove band.
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19 – Mdou Moctar – Ilana The Creator (Sahel Sounds)
Il nigerino Mdou Moctar è un personaggio bizzarro: talmente innamorato della chitarra che iniziò a suonare costruendosene una con i freni di una bicicletta. Quando il boss della Sahel Sounds gli mandò una chitarra mancina, rarissima in Africa, realizzò un remake di Purple Rain di Prince intitolato “Akounak Tedalat Taha Tazoughai”. “Ilana: The Creator” è un disco stupefacente che si ricollega al Jimi Hendrix della Band Of Gypsies ibridandone il discorso con suoni moderni e folkloristici. A dettare legge sono i ritmi indiavolati, la chitarra spaziale, le melodie sbilenche. Prodotto con una vera e propria band a Detroit è suonato con versalità e competenza strabilianti. Se amate Tinariwen, Bombino ma anche Neil Young, Hendrix, Santana, Prince, ZZTop e la psichedelia, questo disco fa per voi. In un certo senso rappresenta il passato, il presente e il futuro del rock.
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20 – Moor Mother – Analog Fluids Of Sonic Black Holes (Don Giovanni Records)
Avere a disposizione solo 20 posizioni costringe a fare delle scelte drastiche, che saremo pronti a ritrattare appena pubblicata questa lista. La scelta di “Analog Fluids Of Sonic Black Holes” è stata piuttosto sofferta perchè lascia fuori due altri album che avrebbero meritato la classifica: l’esordio degli Zonal e il quarto capitolo “Coin Coin” di Matana Roberts. E’ stato scelto il disco della poetessa Moor Mother (già nello straordinario ensemble Irreversible Entanglements) perchè in un certo senso li ingloba tutti. La prima metà del disco di Broadrick e Kevin Martin (gli Zonal, appunto) è condivisa con Moor Mother, mentre con Matana viene condivisa la ricerca dell’identità nera e la protesta politica. Ma non solo per questi motivi: Moor Mother ha realizzato un disco difficile ma stimolante che include elettronica, dub, jazz, hiphop, folk, gospel, soul, noise e stranezze assortite. “Analog Fluids Of Sonic Black Holes” proietta l’ascoltatore nel futuro: non fatevi cogliere impreparati.