L’Angolo Della Morte: le 10 uscite Death Metal più significative di Marzo 2019
a cura di Apparizione79
Il mese di marzo 2019 segna una quantità mostruosa di uscite, all’interno delle quali il mio allenato orecchio deathmetallico ha finito per reperire un buon numero di prodotti di spessore assoluto. Mi è stato difficile scegliere, spero alla fine di non aver lasciato fuori qualche lavoro che, magari per altri, sarebbe stato degno di essere menzionato.
Nel frattempo, i mesi passano e con loro le stagioni: mentre scrivo queste righe siamo entrati in una nuova primavera, una stagione agrodolce per il metallaro di casa nostra; da un lato si è costretti a subire l’innalzamanto delle temperature, il sole e la luce incipienti, le grigliate di gruppo nei fine settimana; ma dall’altro la primavera è anche il preludio per l’estate, coi suoi festival e i suoi concerti.
Il prossimo mese di giugno compirò 40 anni: mi sarebbe piaciuto festeggiare questo traguardo (importante più da un punto di vista statistico che altro in realtà) prendendo parte ad un bel festival estivo in compagnia dei miei compari di sventura metallici.
Probabilmente non sarà così: uno di questi giorni ho sentito da una radio uscire le note di “The final countdown” degli Europe, non certo la mia canzone preferita performata dalla mia band preferita! Tuttavia, mi ha fatto tornare in mente il prato del mainstage dell’Hellfest, dal quale, distrattamente, avevamo seguito le note della storica canzone della band hard rock svedese durante una pausa dal forcing death-black metallico a cui stavamo sottoponendo le nostre orecchie.
Bene, solo per dire che quel prato è uno dei luoghi al mondo nel quale ogni metallaro deve andare almeno una volta nella vita.
E, dopo aver avuto questo privilegio, negli anni a venire, si impegnerà, secondo quanto gli sarà possibile, per trovare il modo di tornarci, almeno un’altra volta nel corso del resto della sua vita.
1 . Misery Index – Rituals Of Power – Season Of Mist
L’attacco della prima song, “Universal Untruth”, mi ha fatto per un attimo preoccupare: che i Misery Index avessero deciso di cambiare attitudine e virare verso un sound più sofisticato e meno aggressivo?
Se avessi ascoltato i numerosi singoli che hanno preceduto l’uscita del full lenght non avrei avuto questo genere di dubbi, ma, da buon vecchio deathmetallaro oltranzista, non dedico nemmeno un secondo della mia vita al singolo, attendo l’uscita ufficiale, che sia full, split o EP.
In ogni caso, il quartetto di Baltimore ci ha messo ben poco a spazzare via le nuvole che si erano addensate attorno al mio testone metallico e a confermare con le prime note della song successiva di non avere alcuna intenzione di esplorare meandri differenti da quelli già precedentemente navigati con sommo piacere di ascoltatori come il sottoscritto.
E così, le chitarre iniziano a disegnare il solito assalto impreziosito da alcuni assoli tecnici e più melodici; la sezione ritmica non lascia in vita nessuno: basso mirabile e batteria assassina; le due voci di Jason Netherton (anima e fondatore della band) e Mark Kloeppel si stagliano granitiche e profonde su ogni pezzo.
Ho trovato lo sforzo dei ragazzi del Maryland più simile al loro quarto disco “Heirs To Thievery”, piuttosto che al precedente “The Killing Gods”: in sostanza, il presente lavoro preferisce percorrere strade maggiormente vicine al grindcore, mescolando con sapienza pesantissime parti cadenzate e furiose sparate di rullante e chitarre.
Il sound tipicamente americano da nuovo millennio è caratteristico di questa band: un sound tecnico e brutale, profondo e determinato, pulito e meccanico, ma di grande impatto e atmosfera; i MI, insieme ai conterranei Dying Fetus e ai californiani del sud Pig Destroyer rappresentano ormai i nomi di riferimento per il death metal brutale e tecnico della nuova generazione americana.
Apprezzo tantissimo le band che ho citato, soprattutto perché hanno saputo costruire una nuova proposta brutale, matura e al passo coi tempi, senza snaturare il genere: sono classiche che di più non si può, ma allo stesso tempo hanno qualcosa di indefinitamente moderno. Credo che il segreto del successo del sound dei MI, per ascoltatori come me, stia nella profonda anima rock della loro sezione ritmica: i nostri non si perdono mai, neppure quando vanno al galoppo, la batteria accompagna sempre con commovente dedizione il lavoro sontuoso della ritmica e del basso; questi musicisti sono rock nel profondo e credo che i migliori gruppi metal siano quelli che hanno questo DNA, questa capacità di rendere il loro sound profondo senza complicarlo.
Poi certo, i MI non sono i Black Sabbath e nemmeno i Judas Priest, e mi pare giusto così.
Per concludere, un plauso ai testi politici protestatari sempre interessanti e alla bellissima copertina (peccato non abbia più tempo, voglia e spazio per tatuarmi un pezzo così grande) e un accenno alle canzoni che ho più gradito (senza dimenticarci che il disco è tutto eccellente): “I Disavow” per l’assolo sparato melodico davvero bellissimo, “Decline And Fall” per la potenza devastante e la title track per la particolare riuscita degli stacchi rallentati alternati alle sparate grindeggianti che caratterizzano il sound della band.
Che dire, i MI sono una delle band di oggi da me preferite: adoro la doppia voce, la composizione, il sound, tutto; mi piacciono l’attitudine politicizzata, la relativamente scarsa produttività dei nostri (sesto disco in circa 20 anni di esistenza, anche se non vanno dimenticate diverse, ma non troppe, uscite minori di spessore).
Ascoltate questo disco, si tratta della prova contemporanea del fatto che i ragazzi di Baltimore meritano il rispetto e la considerazione che i sempre attenti ascoltatori dediti al metallo della morte giustamente gli hanno tributato durante la loro, ormai piuttosto significativa, carriera.
2 . Accursed Spawn – The Virulent Host – PRC Music
Quintetto canadese che proviene dalla capitale Ottawa e che vara il proprio primo full lenght, dopo un paio di EP in dieci anni scarsi di esistenza.
Gli Accursed Spawn sono una macchina ben rodata, in grado di proporre un sano e brutale death metal derivato dal movimento americano dei primi nineties, ma impreziosito da una gradevolissima deriva tech-death che rende il sound più moderno e ficcante.
Tra le principali muse ispiratrici dei nostri troviamo i Deicide e, soprattutto, i Cannibal Corpse di “The Bleeding”: la ricetta ha sempre funzionato ove proposta con cura e devozione e gli AS non fanno eccezione dal momento che i canadians sanno perfettamente quale sia il lavoro da portare a termine.
E così, a partire dall’incipit del lavoro, “Bophal 84”, la violenza dei nostri trova eccellente espressione: gran bel lavoro delle chitarre, classicamente metal ma con un accenno di tecnologica violenza moderna che rende i riff chiari e definiti, sontuoso il lavoro del basso nella più classica tradizione di interpreti del passato tipo Di Giorgio o Webster, batteria killer che non perde un colpo e voce cavernosa e convincente che si inserisce alla perfezione nella potenza complessiva dei pezzi.
Il disco rappresenta un nuovo capitolo per la scena odierna canadese, una scena che inizia ad annoverare un discreto numero di band dedite al metallo della morte; a differenza di quanto accadeva nel periodo d’oro del death metal, quando il movimento estremo proveniente dal freddo paese nordamericano era maggiormente rivolto al black metal.
La label PRC Music (canadese pure lei) sta dando voce e diffusione ai prodotti dei gruppi death metal del Canada: questo a dimostrazione di come, anche nella moderna era digitale, l’attenzione degli ascoltatori (per un genere musicale che di sicuro non capita di sentire camminando per la strada, in palestra o entrando in un negozio) vada conquistata attraverso la promozione di prodotti ben registrati, sentiti e seri come il presente.
Il lavoro si dipana all’insegna della violenza ben costruita, ragionata e mai caotica: il meglio viene raggiunto con “The Ageless Curse”, song nella quale la brutalità stile Cannibal Corpse convive alla perfezione con un riff di derivazione melodica, oserei dire quasi swedish (di origine At The Gates o Amon Amarth), un pezzo davvero trascinante; a seguire, ho apprezzato parecchio anche “Dogmatic Affliction”, “Mass Glossectomy” e “Cesium 137”, tutte canzoni che mi hanno letteralmente attaccato al divano per la potenza assoluta della proposta.
Album fortemente consigliato a tutti gli appassionati e che si inserisce di diritto tra le offerte più dirette, brutali e convincenti che il 2019 ci ha, fino ad adesso, offerto.
3 . Imprecation – Damnatio Ad Bestias – Dark Descent Records
Altro prodotto americano, ma dalle caratteristiche opposte rispetto a quello dei Misery Index e differente anche dalla proposta dei canadesi Accused Spawn.
Gli Imprecation provengono dal caldo Texas ma, come spesso accade per le band estreme che arrivano dal deserto degli States, propongono un sound crudo e arcaico, ai confini con il black metal, genere dal quale i nostri pescano a piene mani a livello di attitudine, layout e impostazione del suono.
Questa band arriva da molto lontano: gli Imprecation sono nati nel 1991 e hanno annoverato tra le loro fila un numero imprecisato di musicisti che hanno donato le proprie energie ad un altrettanto imprecisato numero di gruppi, per lo più texani, dedite a suonare ogni tipo di metallo, dal grindcore al classic heavy, passando per il black e naturalmente il death; la band si è sciolta nel 1998 ed è tornata in vita, per mano dei due membri fondatori, il cantante Dave Herrera e il batterista Ruben Elizondo, nel 2009 per dare alla luce, nel 2013, il suo primo vero full lenght.
Dopo uno split con i fratelli Blaspherian, i nostri sono rimasti improduttivi fino alla proposta odierna.
Le influenze degli Imprecation vanno ricercate nel death metal blastbeateggiante dei Morbid Angel e in certe cadenze di band storiche americane quali Incantation e Morta Skuld, senza dimenticare che i nostri amano avvicinarsi a luoghi popolati dai demoni del metallo nero, arrivando a ricordare alcune creature malevole e caotiche tipo gli Archgoat o, addirittura, a scomodare nomi antichi quali Blasphemy o Sadistik Exekution.
In realtà, ascoltando il disco se ne coglie la piena appartenenza al mondo death metal (caratteristica che non si può invocare per gli Archgoat): le chitarre riffeggiano crudeli e si impegnano in assoli estremamente rockettosi, la sezione ritmica si appoggia su una feroce batteria vecchio stile e su un basso sempre ben strutturato, la voce è cadaverica e cattiva come spesso accadeva nelle band death metal di allora e si sposa alla perfezione con il sound antico della band; moltissime le parti cadenzate, nelle quali gli Imprecation disegnano trame di orrore e disperazione, per poi lanciarsi in furiosi assalti dal sapore davvero antico.
I pezzi migliori sono la micidiale “Beasts Of The Internal Void”, la tastierosa e atmosferica “Baptized In Satan’s Blood” e la doomeggiante “The Sheperd And The Flock”.
Gran bel disco di oscuro e cattivo death metal blackeggiante che arriva da lontano, dalla composizione netta e precisa e dall’esecuzione cruda e diretta: un lavoro che ci consegna la band texana in ottima forma nonostante tutto il tempo passato, nonostante la creatura di Herrera ed Elizondo sia rimasta per tanti anni sepolta sotto la polvere del deserto texano.
Oggi, gli Imprecation sono tornati e non sembra abbiano intenzione di cedere il passo: un lavoro onesto, serio e diretto che consiglio caldamente a tutti gli appassionati.
4 . Obscure Infinity – Into The Vortex Of Obscurity – F.D.A. Records
Una delle più attente case discografiche tedesche non poteva non avere nel proprio roster una band interessante come i paesani Obscure Infinity, provenienti dalla prolificissima regione della Renania.
I nostri sono fra quelli che devono molta della propria ispirazione ad una band di cui non si parla mai tantissimo, ma la cui importanza si coglie nell’innumerevole numero di gruppi che hanno scelto il titolo di una delle canzoni dei suddetti quale nome per il proprio combo; sto parlando degli svedesi Grave: vero che fanno parte dei big four insieme a Dismember, Entombed e Unleashed, ma spesso suscitano meno entusiasmi dei tre citati grupponi o dei conterranei Hypocrisy (esclusi dal quartetto che sarebbe diventato un quintetto perché hanno deciso di dedicarsi a sonorità più gotiche nel prosieguo della loro parabola produttiva).
“Obscure Infinity” è il titolo di una canzone contenuta nell’album di esordio degli svedesi, il sontuoso “Into The Grave”; ma l’influenza non si ferma qui: nonostante la teutonica potenza degli OI, la band ama digressioni melodiche di stampo maggiormente scandinavo, a tratti confinanti con intermezzi che starebbero bene in un disco di gothic death metal.
La ricerca del riff grattante e melodico rimanda nuovamente a composizioni più svedesi che germaniche; la voce strisciante, putrida e profonda si sposa alla perfezione con la ragionata e melodica cattiveria dei pezzi; la sezione ritmica alterna con sapienza il riff rapido e crudo con stacchi di maggiore melodia e ragionamento; la batteria è potente, chiara e varia al punto giusto. Il tutto è completato da una registrazione perfetta che rende giustizia alla bravura dei musicisti e alla vena compositiva eccellente della band.
Tra le canzoni di maggior impatto, indico la conclusiva “Swallowed By Time And Darkness”, una lunghissima cavalcata che mi ha ricordato, con le dovute proporzioni, la maideniana “Rhyme Of The Ancient Mariner” per varietà della composizione, alternanza di classic death metal e deviazioni in territori gotici e melodici, ricerca del riff trascinante e grande resa esecutiva di atmosfera; a seguire, la goticheggiante ma allo stesso tempo speedosa “Grotesque Face” e la più classica “Lightning Spear”.
Per concludere, un prodotto davvero intrigante da parte di un combo (qui al quarto disco) che ha raggiunto una notevole capacità compositiva ed esecutiva, una maturità che lo colloca di diritto tra le proposte emergenti di maggior valore di questa prima parte di 2019.
5 . Okkultist – Reinventing Evil – Alma Mater Records
Il frontman dei Moonspell, Fernando Ribeiro, un vero vate all’interno della scena portoghese, alcuni anni orsono ha creato la sua etichetta indipendente per distribuire, inizialmente solo all’interno del chiusissimo mercato lusitano e poi un po’ dappertutto, i prodotti generati da band underground portoghesi.
Il buon Fernando, data la sua cultura metallica, non deve aver avuto molti dubbi sulle potenzialità dei qui presenti Okkultist, provenienti dalla capitale Lisbona.
Il combo propone un death metal dal suono strisciante con ampie degenerazioni di radice black metal capaci di rendere il prodotto assai oscuro e malevolo nonostante la sua matrice diretta che definirei quasi thrash.
La forza del sound dei nostri sta nella capacità di combinare riff dalla connotazione blackeggiante con rallentamenti e cadenze tipicamente death metal, il tutto in un contesto di aggressività, come detto, crudamente thrash.
Ne esce un prodotto ben disegnato, dalla direzione chiara e sensata, senza troppi compromessi: l’apparente grezza attitudine ignorante dei nostri non deve trarre in inganno, gli Okkultist sanno mescolare con abilità il black metal, i blast beat del death americano, i riff di derivazione thrash e la tecnica delle band moderne.
Ci sono cose che possono essere migliorate: in primis la voce, davvero troppo asciutta e inespressiva, tirata verso uno scream a tratti godibile, ma alla fine un pò noioso; inoltre, alcune parti sono troppo complesse finendo per mal conciliarsi con la sana attitudine diretta della band.
Tra i pezzi che ho più gradito, di certo la cadenzata e malefica “Sign Of The Reaper”, la thrashosa “Back From The Dead” e la blackmetallica “Sniff The Blood”.
Prodotto di nicchia che consiglio assolutamente a tutti: pur con i difetti che ho descritto, il disco è bello, a tratti sembra di ascoltare gli Slayer, in altri momenti i Death, in altri ancora i Bathory (a cui in effetti i nostri dedicano la cover di “Satan Is My Master”, pezzo col quale concludono degnamente le loro fatiche).
Tutto questo con le dovute cautele e proporzioni: anche perché gli Okkultist, come tutte le band che provengono dall’interessante e notevole scena underground portoghese, hanno un proprio sound e una propria vena creativa che li rende particolari e ben caratterizzati.
Concludo ripetendomi: disco eccellente che consiglio vivamente a tutti.
6 . Undead Prophecies – Sempiternal Void – Listenable Records
Misterioso combo i cui componenti decidono di rimanere nell’ombra, celandosi dietro a nomi di fantasia e non raccontandoci nulla della loro storia musicale: i nostri sono qui al secondo full lenght, dopo l’eccellente “False Prophecies” di alcuni anni fa, e mantengono le aspettative che avevano creato con la loro prima fatica produttiva.
La band è dedita ad un veloce e cattivo death metal che sfocia in numerosi intermezzi di malevolo ragionamento, una proposta che strizza l’occhio a sonorità blackmetalliche pur restando pienamente ormeggiata nei moli tipici del metallo della morte.
Le chitarre strisciano riff putridi e disturbanti, nei quali la dissonanza della proposta la fa da padrona, il basso resta in sottofondo ma fa in pieno il proprio dovere di collante, mentre la batteria è sempre varia ed espressiva e rappresenta uno dei punti di maggior interesse della composizione dei nostri; il pacchetto regalo è completato da una voce aspra e cadaverica che si colloca in una via di mezzo tra il primo Chuck Shuldiner e John Tardy per timbro e profondità.
L’album è registrato e performato alla perfezione: tutti gli strumenti sono chiari e comprensibili, la voce potente ed espressiva, la resa melodica di alcuni riff eccellente.
Quando mi capita di ascoltare questo genere di death metal rimango sempre soddisfatto: gli Undead Prophecies suonano di certo qualcosa di diretto e, a tratti, primitivo, ma con classe e cura del dettaglio, senza dimenticare di aggiungere un tocco di tecnica esecutiva moderna alla proposta per non lasciarla galleggiare nella media dei lavori capaci soltanto di ripetere (magari per bene) quanto suonato da altri in passato.
E così, non posso che bearmi nell’ascolto di brani quali “Insidious Manipulators”, nella quale la vena compositiva dei nostri li porta in territori doom e melodici prima di tornare nell’aspro e crudo death metal che tanto piace alla band; oppure nelle intense “Devoured” e “Circle Of Conspiracy”. Siamo davanti ad un lavoro che eccelle nel suo complesso, che va ascoltato tutto insieme senza trascurare alcuna song, godendo di ogni riff e di ogni passaggio compositivo che i nostri hanno messo insieme.
Un gran bel disco che consiglio a tutti. Solo non comprendo l’attitudine segreta della band, quando il lavoro esce con un’etichetta importante come Listenable, elemento che mi fa propendere per una certa importanza dei membri del gruppo all’interno del movimento (forse in quello francese, come la label che li produce): per mia opinione personale, preferisco sapere qualcosa di più della band che ascolto per meglio comprenderne le caratteristiche compositive ed esecutive.
7 – Bleeding Utopia – Where The Light Comes To Die – Black Lion Records
Terzo disco in studio per i deathsters melodici svedesi Bleeding Utopia, provenienti dalla cittadina di Vasteras, luogo che ha dato i natali a band importanti all’interno del movimento swedish di fine ottanta e inizio novanta (su tutti Vomitory e Abhoth).
I ragazzi sono capaci di suonare un death metal asciutto e diretto, ma al contempo melodico come si addice alla connotazione che il sound della band possiede.
Non sono un amante sviscerato del melodic death metal: tuttavia, quando trovo prodotti così ben architettati e con una fortissima anima puramente death metal come il presente, non posso non riconoscere che il sottogenere può regalare momenti di cavalcate atmosferiche e altri di lugubre riflessione di grande valore.
I BU si inseriscono con sapienza nella nuova ondata di band svedesi che suonano il vecchio riff melodico grattante e cattivo con una moderna vena di potenza e aggressività.
Come detto, ne esce un prodotto diretto e convinto, nel quale la melodia appare sentita e ben inserita nelle numerose parti veloci e potenti del disco; i musicisti sono di assoluto spessore: benissimo le chitarre riffose e precise, eccellente la batteria classica nel tumpa tumpa e nell’accompagnamento di doppia cassa nelle parti più lente, bene la sezione ritmica, poderosa ed espressiva come si conviene la vociona del singer.
Lavoro nel complesso molto tradizionale ma di grande impatto, suonato con dovizia e registrato con la dovuta chiarezza.
Tra le canzoni che ho trovato di maggior gradimento, metto “Crown Of Horns”, “Already Dead” e “Heralds Of Hate And Defiance”, anche se tutto il disco è permeato di notevole durezza e sentimento e merita di essere ascoltato con attenzione e partecipazione.
Per concludere, trovo utile anche per i deathsters più oltranzisti, di tanto in tanto, avvicinarsi a lavori come quello dei BU, nel quale la classica vena death metal si sposa con cura e rispetto con la melodia che, anni or sono, ha reso famosa la città di Goteborg.
I BU proseguono, oggi, la tradizione iniziata negli anni novanta nella loro terra di origine e lo fanno in modo moderno e convincente, regalandoci un eccellente prodotto di melodic death metal dedicato non soltanto agli appassionati del sottogenere.
8 . Bloodphemy – In Cold Blood – Black Lion Records
Come potevo lasciarmi sfuggire l’ennesima uscita death metal proveniente dai Paesi Bassi? Per nessuna ragione al mondo.
I nostri arrivano dalla cittadina di Amersfoort, collocata a circa 50 km da Amsterdam in direzione Utrecht e utilizzata dal sottoscritto numerose volte quale snodo ferroviario per raggiungere il nord dell’Olanda, ma giustamente ignota ai più.
Tuttavia, Amersfoort non è un luogo di scarso significato per il death metal, soprattutto in tempi moderni: da qui provengono gli Hail Of Bullets (RIP), i Bodyfarm, i Funeral Whore e gli Houwitser, tutte realtà di un certo valore all’interno della iperattiva scena deathmetallica olandese.
Nonostante i numerosi nomi di band concittadine, tuttavia, i nostri non sono un progetto parallelo di membri di altri gruppi (sebbene uno dei chitarristi si cimenti anche nei Neocaesar e negli Houwitser) dal momento che esistono da molto tempo, anche se sono rimasti on hold per parecchi anni (per la precisione dal 2002 al 2015) prima di riemergere dalle nebbie della pianura olandese e varare un full lenght e un EP prima di uscire con il presente lavoro per la svedese Black Lion Records.
A livello musicale siamo nel più classico territorio del midtempo deathmetallico di stampo olandese: sound cupo, crudo, diretto e ben riffoso, chitarre strutturate, granitiche e senza particolari spunti di fantasia, basso asservito al tutto, batteria dedita al tumpa tumpa e vociona growleggiante profonda e demoniaca.
Il disco non eccelle per innovazione e idee, però ha delle caratteristiche di coesione e sentimento che ne rendono l’ascolto assai piacevole; e soprattutto, a mio giudizio, si discosta in positivo da altri prodotti di genere molto simili per il timbro particolarmente growl e possente del cantante che si adatta alla perfezione alle ritmiche lugubri e poderose che caratterizzano il prodotto.
Ci sono parti in cui i Bloodphemy decidono di accelerare e lo fanno molto bene, creando un piacevole tappeto di batteria e di riff con connotazioni tipicamente fiamminghe, in un contesto nel quale, tuttavia, prevale il rallentamento, la ricerca del mid tempo pesante e gutturale: a lungo andare il prodotto risulta un po’ troppo monocorde per incantare, ma non diventa mai davvero noioso.
Tra i brani che ho più gradito, metterei la notevole cavalcata di “Out Of The Box”, canzone nella quale i nostri partono forte e giungono ad un mirabile mid tempo cattivo e desolante; a seguire le ritmate e violenta “Mental Atrophy” e “L’uomo Delinquente” (sì, è proprio vero, il titolo è in italiano anche se il testo della song è in inglese), nelle quali, secondo me, la band da il meglio di sè.
In conclusione, un prodotto di death classico di stampo centroeuropeo, estremamente valido se si cercano ulteriori conferme di quel death ritmato e cavernoso che ha reso famose le band provenienti da questa zona del Vecchio Continente, superfluo per coloro che bramano altro genere di emozioni.
9 . Sisters Of Suffocation – Humans Are Broken – Napalm Records
Secondo album completo per le donzelle olandesi di Eindhoven e notevole passo avanti rispetto al precedente disco e all’EP “Brutal Queen”: le “sisters” decidono di rendere più personalizzata la propria proposta compositiva cercando di variare i pezzi e inserire passaggi di maggior impegno rispetto alle canzoni del primo disco estremamente scarne e semplicistiche.
Non amavo questa band perché mi era parso che le nostre si accontentassero di essere riconosciute all’interno del panorama death metal per il solo fatto di essere l’unica band al mondo composta integralmente da musicisti di genere femminile, senza dedicare particolare attenzione al sound nonostante si percepissero ottime capacità esecutive.
Con il presente disco, le nostre hanno giustamente compreso che, per continuare a stare a galla, avrebbero dovuto sforzarsi di più e migliorare la composizione.
Sia chiaro, la linea di base resta sempre la stessa: death metal vecchia scuola senza particolari spunti di classe ma ben suonato e con una forte anima tech moderna (favorita anche dalla potente produzione), chitarre riffose e rapide, batteria blasteggiante (affidata da questa uscita alle cure dell’unico maschio della band) e voce potentissima (identica a quelle maschili per timbro e potenza) classicamente growl.
Tuttavia, le ragazze del Brabante si fanno apprezzare di più per il tentativo, riuscito solo in parte, di variare la composizione con l’inserimento di stacchi lenti e tastierosi, per alcuni cori con voce pulita e per una sezione ritmica più arzigogolata e potente (forse qui incide l’inserimento di un batterista uomo che, inevitabilmente, riesce a mettere più energia di una donzella dietro alle pelli nel suonare un genere come il death metal).
Il tutto è aiutato da una produzione eccellente (della quale va ringraziata l’austriaca Napalm Records, etichetta importante soprattutto nel black metal ma comunque un nome di grande spessore per l’underground metal mondiale) e da un’esecuzione senza difetti.
Le canzoni hanno vari spunti intriganti ma tendono un po’ a perdersi nel lungo e a risultare piuttosto simili: ho individuato le mie preferite nella title track, in “Blood On Blood” e in “What We Create”.
In conclusione, un disco che non mi ha fatto impazzire ma che rappresenta un deciso step in avanti compiuto dalla band lungo la strada da percorrere per arrivare ad avere un proprio sound caratteristico.
In attesa di ulteriori migliorie, godiamoci questo disco dal sapore antico e diretto, senza sbavature e compromessi seppur senza particolari eccellenze.
10 . Erebos – Heretic – Black Sunset
Sono un grande amante delle stazioni sciistiche austriache, conosco tutte le principali destinazioni, dal Tirolo al Salisburghese, ogni anno cerco di conciliare gli impegni di lavoro e trascorrere almeno una settimana da quelle parti.
Per raggiungere le piste da sci a sud di Salisburgo, è necessario sconfinare a Tarvisio e percorrere la spettacolare Tauern Autobahn, l’autostrada che prende il nome dai monti Tauri, fino alla località alpina di Flachau.
Non immaginavo che nella piccola località di Murau, vicina alle famose Flachau e Schladming, vivesse un quintetto dedito al death metal: ovviamente, non ho trovato tracce della loro esistenza da quelle parti, nessuna indicazione sulle piste da sci, nei bar o nei locali notturni.
Tuttavia, quando un amico mi ha recapitato una copia del cd degli Erebos ho subito notato la loro provenienza geografica e ho pensato, come tante volte mi è capitato in passato, di quanto il metal sia diffuso in tutto il mondo, anche negli angoli più reconditi, nelle località più piccole e isolate, nei paesi più sperduti e dalle culture più lontane le une dalle altre.
I nostri (stessa line up da sempre) si definiscono parte integrante della scena death metal austriaca da molti anni e affermano di suonare una forma di death metal tradizionale senza la ricerca di alcun compromesso con sonorità moderne e innovative: in effetti, gli Erebos, dopo essersi autoprodotti due full lenght e un EP in anni piuttosto lontani (tra il 2003 e il 2005) sono rimasti del tutto silenti fino ad oggi, ossia fino al varo del presente disco.
Nel cd non è spiegato il motivo di tale pausa produttiva: mi sento di poter dire che la ragione non vada ricercata nella mancanza di idee che potrebbe aver colpito i nostri nel lungo periodo di assenza dalle scene discografiche.
Per il semplice motivo che di idee i ragazzi austriaci ne hanno ben poche anche nel presente disco: gli Erebos suonano un death metal classico, devoto ai dettami originari del genere, senza alcuna spinta innovativa e dagli arrangiamenti semplici e diretti.
Le chitarre tramano putride e grattanti, rimembrando sonorità che mi hanno ricordato i Dismember di “Pieces” o i primi Hypocrisy o gli At The Gates sempre delle origini (di “The Red In The Sky Is Ours” e di “With Fear I Kiss The Burning Darkness”), senza mai raggiungere chiaramente le capacità compositive dei maestri citati; il basso resta sepolto sotto la neve dei Monti Tauri e la batteria si staglia granitica e tumpeggiante; il tutto viene completato dalla doppia voce, una più growl e l’altra screammata di sottofondo.
Anche i titoli delle songs rendono l’idea della classicità estrema della proposta dei nostri: “Suffocation”, “Pestilence”, “Killing Spree”, “Putrid Flesh”, “Gallery Of Decomposition”.
Davvero nulla di male in questo disco, che tuttavia non riesce ad emergere al di sopra di un livello di media sufficienza, non solo guardandosi bene dall’eccellere ma anche dal rischiare di essere ricordato per qualche motivo.
L’acquisto è consigliato soltanto a coloro che vogliono a tutti i costi partecipare allo sviluppo della scena death metal austriaca alla quale gli Erebos hanno certamente dato il loro contributo (e solo per questo si sono meritati la nostra gratitudine) a titolo di presenza, dedizione e volontà.
Per quanto mi riguarda, posizionerò il cd nella mia bacheca con la cura che si merita ma non credo che sentirò il bisogno di riascoltare il death metal suonato da questi ragazzi austriaci fieri e autentici, ma non particolarmente ispirati, che vivono in una piccola località alpina alle pendici dei Monti Tauri.
NON PERDERE L’APPUNTAMENTO MENSILE CON L’ANGOLO DELLA MORTE!