I 20 migliori dischi PUNK del 2018
di Diego Curcio
Rieccomi, per il secondo anno consecutivo, a consigliarvi il meglio (o forse sarebbe meglio dire il peggio) delle uscite punk-hc-garage del 2018. Venti dischi, come da tradizione, che hanno scaldato il mio cuore e dimostrato che i cari vecchi tre accordi suonati male e a tutta velocità, sanno ancora fare faville. Non voglio farla troppo lunga ma, come accaduto anche l’anno scorso, questa classifica rischia di essere deficitaria, visto che, per forza di cose, mi sarà sfuggito sicuramente qualcosa di fichissimo. Non sono milionario e neppure sta gran cima: quindi se ho dimenticato il vostro gruppo preferito fatevene una ragione. Quasi sicuramente mi farà cagare. Ma c’è anche la possibilità che non lo conosca. Ci sono poi i classici esclusi eccellenti, come l’anno scorso. Ma invece di fare nomi questa volta ho deciso di andare dritto al sodo. Ecco quindi i 20 dischi punk-hc-garage migliori del 2018 per Tomorrow Hit Today.
01) The Chats – The Chats (Bubca Records)
Il disco dell’anno è un cdr. Bello il ritorno del vinile, ma quando la puzza di moda comincia a farsi sentire sempre più forte è bene riprendere le care vecchie abitudini DIY e badare alla sostanza. E in questa raccolta “corsara” messa insieme dall’ottima Bubca Records ce n’è davvero a pacchi. Nei quindici pezzi di questo CD, signori, c’è il futuro del rock’n’roll. A scriverlo sono i Chats: tre studelinquenti australiani, che suonano un punk talmente diretto, scarno e scazzato da far gridare al miracolo. Il disco raccoglie i primi due introvabili ep della band e inanella una serie di deliziosi ritornelli da due soldi, che riportano indietro la lancetta a 40, ma anche 50 anni fa. C’è la furia del punk, certo, ma anche l’insolenza e la genuinità delle garage band di fine anni Sessanta. Il tutto stipato dentro brani ruvidissimi di appena due minuti, carichi di riff minimali e melodie tossiche. Che dire, la musica più perdente che si possa ascoltare resta ancora oggi la più eccitante. Ed è bellissimo che a suonarla siano degli sbarbi senz’arte né parte. Un disco che, per quel che mi riguarda, è già un classico. Per trovarlo non dovete fare altro che contattare Luca Tanzini e la Bubca Records: ve lo mandano direttamente a casa per soli 5 euro (se gli è rimasta ancora qualche copia). Fatevi sotto.
02) Beechwood – Inside The Flesh Hotel (Alive Records)
Un altro terzetto di ragazzacci – ma questa volta provenienti dall’altra parte del mondo rispetto ai The Chats – si posiziona nelle zone calde della classifica. I Beechwood arrivano da New York e ci dimostrano che, ancora una volta, la Grande Mela è un terreno fertile per un certo tipo di sonorità. Non parlerei propriamente di punk, anche perché nelle vene dei Beechwood scorre una velenosa miscela di rock oscuro e tagliente, che lambisce la psichedelia e il power-pop , fino a toccare, qualche volta, persino lo shoegaze. Un minestrone che, in realtà, ha una certa coerenza di fondo e che sembra l’anello di congiunzione tra la fine degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta. Nel caso vi servissero delle coordinate più precise: pensate a un mix di Velvet Underground, New York Dolls, Modern Lovers e Jesus and Mary Chain. Un oceano di suoni vellutati e di melodie vocali limpidissime (“Boy Before” e “Amy”) dentro il quale nuotano tante altre influenze musicali. Lungo i solchi di “Inside The Flesh Hotel” ci sono mid-tempo rock contagiosi come “Bigo in my bedroom”, psichedelia country cantata in coro (“Our love was worth the heartbreak”), pezzi rock’n’roll più tirati come lo strumentale “Nero” (che sembra quasi una canzone surf d’assalto) e perle pop tipo “Up and down”. Brani dolci come il veleno, cantanti da serpenti che strisciano rapidi lungo i bassifondi di Manhattan.
03) Surfbort – Friendship Music (Cult Records)
Ancora un gruppo di New York (anche se d’adozione) e ancora volta un esordio. I Surfbort sono una punk band chiassosa, in bilico tra lo spontaneismo naif tipico della prima scena californiana (X, Germs e Avengers) e un certo hardcore americano suonato a rotta di collo. Di tradizione newyorkese, forse, non c’è molto nel loro sound. E infatti questi tre tardoni e la giovanissima – e fuori di testa – cantante Dani Miller arrivano chi dall’America più profonda e chi, appunto, dalla California. Dei marziani, ma neppure troppo, che si sono ritrovati nella Mecca del punk e hanno iniziato a suonare un rock’n’roll sporco e caciarone, ma al tempo stesso sexy e divertente. Quattro sciroccati che berciano contro il governo, ma parlano anche di sesso, omosessualità e cazzeggio. Tra i loro estimatori c’è persino John Doe degli X che, a meno di non essersi completamente rincoglionito, ne parla già come di una band destinata a fare la storia del punk. Non so se queste previsioni si avvereranno, anche perché temo che la carica eversiva e propulsiva di questa sottocultura si sia inevitabilmente esaurita col passare degli anni. Non è possibile mettere a ferro e fuoco il mondo della discografia con armi vecchi e spuntate. Ma questo è un altro discorso. Il punk è ancora qualcosa di vivo e bollente, anche se più a livello musicale che sociale. E i Surbort sono tra i migliori interpreti di quella tradizione.
04) Dark Thoughts – At Work (Stupid Bag)
Dei Dark Thoughts non so molto. Anzi, fino a mezzora fa pensavo fossero canadesi, ma poi mi sono accorto che vengono da Philadelphia. Cantonate geografiche a parte, appena li ho ascoltati – grazie al provvidenziale consiglio di un amico – ho capito che non avrei fatto altro per tutte le settimane seguenti. Ed è un mese che sta andando così. Eppure non è che i nostri inventino qualcosa di particolarmente nuovo. Anzi, molto banalmente i Dark Thoughts suonano punk-rock o pop-punk sulla scia dei Ramones, anche se con una particolare predilezione per il loro periodo anni Ottanta. Quindi al classico bubblegum scanzonato aggiungono una certa vena dark a tratti irresistibile. Anche loro, per fortuna, sono specializzati in pezzi brevi e fulminanti, tanto che riescono a infilare ben 12 canzoni in meno di 20 minuti. Lentoni strappamutande come “With you” vi si appiccicheranno così tanto alla testa che non vorrete ascoltare altro per tutta la vita. Mentre bastonate di rock’n’roll demente come “Watch you walk away” e “Little thing” sapranno intontirvi a dovere, come solo i primi e fantastici Mean Jeans erano stati in grado di fare. Disco spettacolare.
05) Marked Men – On The Other Side (Dirtnap)
Maso è stato piuttosto chiaro: niente ristampe. Ma come si fa a non mettere nella classifica dei migliori dischi punk-hc-garage del 2018 questa raccolta dei Marked Men, che, dopo dieci anni di silenzio discografico, ci consegna inaspettatamente tra le mani un “nuovo” album di una delle migliori punk-rock band degli anni Duemila? D’altra parte in questo lp, che raccoglie singoli e partecipazioni a compilation, ci sono anche due inediti. Quindi, in un certo senso, la consegna di Maso è stata rispettata. E poi diciamo la verità: gli “scarti” dei Marked Men potrebbero essere le canzoni di punta di molte delle punk-band attualmente in circolazione. Il gusto per la melodia a presa rapida, i ritmi serrati, le chitarre taglienti e vorticose e la vena darkeggiante di questi quattro texani sono ancora il meglio che si possa ascoltare in giro.
06) Joe Strummer – 001 (Ignition)
Visto che siamo in tema di “ristampe” (ok, forse quest’anno ho esagerato un po’, ma giuro che è l’ultima che metto) non posso non segnalare questa splendida raccolta di Joe Strummer. Un doppio disco (uscito anche in cofanetto, con varie chicche da lacrime) che oltre a contenere un’interessante retrospettiva solista del leader dei Clash – tra partecipazioni a compilation, colonne sonore e pezzi presi dai dischi coi Mescaleros: insomma tutto ciò che è accaduto dopo lo scioglimento del più grande gruppo rock di tutti i tempi – ci regala 12 inediti da pelle d’oca, che sono come una birra ghiacciata nel deserto. Canzoni recuperate dalla moglie di Joe scavando all’interno dello sterminato archivio di famiglia. Tra qualche demo e alcune versioni alternative, spiccano anche parecchi brani mai sentiti – almeno dal sottoscritto – come la splendida “Puring rain” (suonata con Simonon e Howard), un pezzo da lacrime come “Blues on the river” – ogni volta che sento la voce di Joe, non so voi, ma a me batte fortissimo il cuore e mi viene un nodo in gola – una versione stranissima e stupenda di “This is England” qui ribattezzata “Czechoslovak song” e via di questo passo. A chiudere il disco di inediti c’è un altro brano che farà commuovere ogni fan dei Clash che si rispetti: “U.S. North”, canzone del 1986 tra Clash e Big Audio Dynamite che Joe suona insieme a Mick Jones (qui alla chitarra e voce). Insomma materiale infiammabile per cuori ribelli.
So perfettamente che questa raccolta potrebbe apparire a molti come la classica roba da vecchi nostalgici e proprio perché si tratta, soprattutto, di una faccenda di cuore ho deciso di metterla al sesto posto della classifica. Ma sappiate che per me – e per ogni punk che si rispetti – questo dovrebbe essere il disco dell’anno.
07) Peawees – Moving Target (Wild Honey Records)
I Peawees sono il miglior gruppo rock’n’roll italiano. E lo dimostrano, ancora una volta, con questo disco assolutamente magnifico. “Moving Target” arriva a ben sette anni di distanza dal suo predecessore “Leave it behind” e rappresenta uno dei punti più alti toccati dalla band spezzina. Dieci pezzi compatti di rhythm and blues (quello vero) per i quali è davvero difficile non perdere la testa. Ogni canzone è un potenziale singolo, grazie a un suono unico e ormai personalissimo. Merito della bella voce di Hervé, certo, ma anche di una formula ormai collaudata a dovere, dopo oltre vent’anni di concerti e dischi. Rispetto al passato c’è una maggiore attenzione alle melodie e le ballate superano i brani rock’n’roll. Ma forse è proprio questo il segreto che rende “Moving Target” così irresistibile. Un album di una classe sconfinata, ricco di suoni e pieno di sfumature.
08) Lupe Veléz – Weird Tales (Area Pirata)
Un sound che più americano non si può, capace di far convivere M5C e Moving Targets all’interno di uno stesso album. Punk nel senso più ampio del termine, insomma, anche se di quello nato e cresciuto dall’altra parte dell’Oceano. Perché è lì che sembra essere stato scritto e inciso “Weird tales” dei toscani Lupe Veléz. Uno splendido esordio, che riesce a spiazzarti sin dall’attacco di “It seems so real” e che dimostra una ampiezza di vedute musicali sorprendente. Ci sono i pezzi più garage come “Next mistake”, il rock cosmico di “No pain”, le ballate (“Asleep”) e il punk di “Banned from my city”. Tutte canzoni che nel disco si susseguono una dopo l’altra. A tenerle unite c’è sopratutto la voce sfrontata e unica di Stefano Ilari, capace di dare un’impronta molto personale all’intero album. Tra i miei brani preferiti del disco ci sono senza dubbio “What you’re waiting for” (tra gli Husker Du dei “Candy apple grey” e i già citati Moving Targets) e “Oblivion”, dalla melodia roboante e contagiosa. Ma la verità è che non c’è un pezzo fuori posto.
09) Color Tv – Color Tv (Deranged Records)
Dura appena 18 minuti e una manciata di secondi questo primo album omonimo dei Color Tv di Minneapolis, ma bastano pochi istanti per capire che si tratta di un disco pazzesco. La partenza con la strumentale “Locals only” è l’ottimo biglietto da visita di un lp vorticoso e eccitante, suonato a velocità massiccia, ma ricco di melodie. Beach punk e hardcore melodico dal retrogusto dark sono gli indizi principali, per capire entro quali confini si muovano i Color Tv. Ma se, come sempre, vi servisse qualche gruppo di riferimento per inquadrare i nostri pensate ai Red Dons, una delle migliori punk band uscite negli ultimi 15 anni o ai Vicious e al loro mix di chitarre taglienti, suoni ossessivi e melodie agrodolci (ascoltate “Serial Offender” e “Self Carelles” e poi ditemi se non ho ragione). Qualcuno, forse, potrebbe considerare i Color Tv un gruppo minore. Ed è proprio questo l’aspetto che li rende così indispensabili.
10) Rik and the Pigs – A Child’s Gator (Total Punk)
Questo dev’essere l’anno dei dischi da 18 minuti (e visto che siamo nel 2018, non penserete mica si tratti di un caso… gombloddddoo!!1!!111). Cazzate a parte un album breve ha molta più possibilità di essere un album fico e se pensate che questo lp di Rik and the Pigs dura quanto una tipica canzone dei Pink Floyd capirete subito da che parte batta il mio cuore. Anche perché ci vuole davvero poco per innamorarsi di questa manciata di canzoni da fuori di testa. Basterebbe l’uno-due iniziale composto da “Steve Be Goode” e “(Baby I’m) Electric” per convincere chiunque sia dotato di un mino di gusto a consegnarsi spontaneamente a Rik e ai suoi maiali. Gli ingredienti base di questo cocktail avariato di scorrettezze sono: punk maleducato, riff belli grossi e cafoni, spruzzatine glam e attitudine festaiola. Insomma il sound che ogni band che (non) si rispetti dovrebbe avere al giorno d’oggi. I Rik and the Pigs arrivano da Olympia, questo è il loro esordio dopo una riga di sette pollici e non credo serva aggiungere altro.
11) Sick Thoughts – Sick Thoughts (Goner)
Quella foto in in bianco e nero sulla copertina del disco, con lo sguardo sornione, il giubbotto di pelle e la sega elettrica in mano descrive alla perfezione il nuovo e omonimo album di Sick Thoughts. Un lp un più dark del solito, forse, ma comunque un’altra pesantissima mina che si abbatterà sul vostro impianto stereo da due soldi. Sick Thoughts è un teppistello ventenne che suona brani punk velocissimi e a bassa fedeltà, infarciti da linee vocali ottuse e pedanti. Un amante della musica rumorosa, cafona e dalla struttura scarna ed essenziale, che ha saputo conquistarsi un certo rispetto sul campo. Quello che troverete in questo disco omonimo è blues all’arma bianca per giovani disadattati e beoni: gente che farebbe brutta figura perfino a una convention di fan di Star Wars. Ma cosa ci volete fare? Il bello di Sick Thoughts è che il ragazzo, per quanto possa sembrare prevedibile, non riesce a sbagliare mai un colpo. E anche quando rallenta leggermente i giri della sua chitarra scalcagnata è capace di regalarci un album coi fiocchi come questo.
12) Night Birds – Roll Credits (Fat Wreck Chords)
Per fortuna la Fat Wreck si sta tenendo strette le poche band, che continuano a giustificare la sua esistenza. Perché se dovessimo guardare al grosso delle recenti uscite sfornate della label di Fat Mike ed Erin ci sarebbe davvero da mettersi le mani nei capelli. I Night Birds sono senza dubbio tra le punte di diamante della scuderia Fat e lo dimostrano con questo disco di hardcore fulminante, che ci riporta alla California degli anni Ottanta. I brani di “Roll credits” (8 canzoni in 17 minuti, compresa la bella cover di “I need a torch” dei Suicide Commandos) sono la quintessenza del beach punk, quell’ibrido tra punk, surf e hardcore, nato nei primissimi anni Ottanta tra Orange County, Los Angeles e Hermosa Beach. Avete presente i fantastici Middle Class? Ecco, siamo da quelle parti. Ed è davvero un posto bellissimo. Se vi piacciono le canzoni veloci, i ritmi serrati, le voci isteriche e le melodie acide è il disco perfetto.
13) Neuvegramme – Neuvegramme (Burning Bungalow)
Neuvegramme in genovese (ma anche negli altri dialetti liguri) significa più o meno cattive notizie. Anzi, pensandoci bene, forse, si tratta di un’espressione più diffusa nel savonese, che sotto la Lentarna. Ma glottologia a parte questo album omonimo, frutto di un bellissimo progetto musicale, che mette insieme alcune delle migliori nuove leve della scena hardcore fra Sarzana e Ventimiglia, è un piccolo miracolo, che ancora in pochi hanno avuto la fortuna di ascoltare. Un disco unico e dirompente, inciso da una sorta di supergruppo e pubblicato dalla solita messe di etichette indipendenti. Le coordinate, manco a dirlo, sono quelle del post-hc e dell’emo – quello vero, ma è sempre il caso di ribadirlo o possiamo iniziare a smetterla? – cantanti in italiano. Testi introspettivi e poetici, potenti sezioni ritmiche e chitarre che esplodono di dolore. Una raccolta di canzoni urlate in coro, che fanno male come coltellate (“Galeone”), un’epica hardcore che riesce a rinnovare in modo del tutto naturale uno dei generi meno innovativi che ci possano essere. Ascoltate le melodie di “Ritratti in piedi”, la poetica di “Interludio” e la furia di “Demetra”: questo è il crossover degli anni Dieci.
14) Bad Sports – Constant Stimulation (Dirtnap)
I Bad Sports sono un classico gruppo Dirtnap, nel senso buono del termine. Hanno ottime melodie e cori robusti, amano il rock’n’roll, ma anche il power-pop e il primo punk e sanno scrivere canzoni irresistibili di tre minuti. E anche se il mio interesse per loro è alquanto discontinuo, visto che non sempre la ciambella esce col buco (i primi due dischi mi piacciono molto, mentre il terzo mi è sempre parso poco ispirato e il quarto non l’ho proprio sentito), in questo “Constant stimulation” riescono a mettere a frutto al massimo i loro talenti. Anzi, talvolta il sound riesce anche a rinnovarsi un po’ rispetto al classico pop-punk dei primi lavori (il quasi post-punk di “Distant life”). I riff diventano più corposi e anche la struttura dei pezzi varia leggermente (vedi “Gain and losses”). Tutti gli undici brani del disco, comunque, suonano alla grande, hanno la giusta dose di grinta e – scusate se è poco – melodie vocali azzeccate (“Ode to power”). In più lungo i brani del disco aleggia quel fondo di malinconia cosmica, da spiaggia deserta in pieno autunno, che resta un vero marchio di fabbrica della band. In poche parole: un ritorno coi fiocchi per questo power trio texano, che non sempre ha raccolto quando di buono ha seminato.
15) Archie and the Bunkers – Songs from the Lodge (Dirty Water)
Archie and the Bunkers da Cleveland (Ohio) sono due ragazzini terribili che, nel giro di tre anni, sono diventati delle mezze star dell’underground. Partiti come una sorta di Suicide beat-garage, con organo, batteria e voci sguaiate, da qualche tempo i nostri hanno iniziato lentamente a cambiare pelle, arrivando a mescolare al loro classico sound d’assalto punk-rockabilly anche alcune venature pop malinconiche che, a tratti, ricordano i Pulp (la splendida “Laura” ne è un esempio lampante). Un miscuglio di generi che suona ridicolo soltanto a parlarne, ma che, attraverso il gusto folle di Archie anche the Bunkers, diventa qualcosa di assolutamente unico. Il risultato è un disco spettacolare come “Song from the lodge”. Un album solido e pieno zeppo di ottime canzoni, chiassoso e ricco di classe al tempo stesso. Un vero gioiello dalla melodie tossiche, come una messa cantata da venusiani punk.
16) Lame – Alone And Alright (Alien Snatch)
Se i Peawees sono il miglior gruppo rock’n’roll italiano, i Lame sono la più grande garage band dello stivale (e non solo). Anche loro vengono dal Belpaese, ma hanno davvero pochi rivali dentro e fuori i nostri confini. Guidato dal leggendario Massimo Scocca questo terzetto torinese, pur avendo soltanto due album all’attivo, è già un punto di riferimento per chi è cresciuto col gunk punk dei primi anni Novanta. In questo loro secondo lavoro i Lame sfoderano suono meno violento rispetto all’esordio e lungo tutto il disco aleggia un senso fortissimo di malinconia. Un blues disperato, che pesca a piene mani nelle radici della musica americana. Parafrasando Federico Sirianni, cantautore genovese trapiantato nel capoluogo piemontese: Torino, Illinois o forse sarebbe meglio dire Torino, Ohio. I Lame mescolano (e citano) gli Stooges alla psichedelia dei Green on Red. Ballate scintillanti come “Sue” si alternano a cavalcate soniche come come “Evelyn” e “Memories”.
17) Cavemen – Nuke Earth (Slovenly Recordings)
Ho avuto la fortuna di vedere i Cavemen dal vivo per ben due volte nel giro di due anni. Ed è un’esperienza che consiglio a tutti, almeno una volta nella vita. Questi quattro debosciati della Nuova Zelanda sono una delle band più punk che possiate trovare in circolazione. Suonano un garage minimale e velocissimo, come dei cavernicoli imbottiti di birra da quattro soldi a cui hanno regalato degli strumenti musicali a caso. Il risultato, soprattutto dal vivo, è qualcosa che raramente si riesce a vedere sopra e sotto un palco. Un mucchio selvaggio di suoni distorti e urla belluine, che vi farà dimenare come pazzi in preda al ballo di San Vito. Inni immortali (o immorali) come “Gimme beer or gimme death” e “Chernobyl baby” sapranno come spettinarvi ben bene i peli delle braccia, grazie al loro sporchissimo mix di Stooges, Motorhead e oscuri gruppi proto-punk. Questo terzo disco non si discosta molto dalle due uscite precedenti. Fossi in voi mi procurerei tutto quello che questi fusi di testa hanno inciso.
18) Hakan – III (One Chord Wonder / Brassneck Records)
Qualcuno li chiama i Marked Men all’italiana (un po’ come i Kina venivano definiti gli Husker Du delle montagne). E in effetti la band bergamasca ha parecchie cose in comune con il quartetto texano Prima di tutto il gusto per la melodia acida e malinconica e poi, anche loro, hanno una malsana propensione per il pop-punk suonato a mille all’ora. Detto questo gli Hakan restano gli Hakan e in questo terzo disco non sbagliano un colpo, come nei due album preceduti. Pezzi brevi e fulminanti (che raramente arrivano a due minuti), doppie voci, coretti contagiosi, chitarre spianate e tanti saluti. Tra i miei pezzi preferiti (ok, sarebbe più facile dire: tutti) spiccano “King of Edonè”, “They don’t like it”, “Pita for breakfast” e “Hangover girl”. Uno dei miei gruppi italiani del cuore.
19) Shitty Life – Witch Off Your Head (Spastic Fantastic)
Una legnata nei denti. Potrebbe bastare questo a descrivere un disco furioso e incandescente come “Witch off your head” dei parmigiani Shitty Life. Dodici pezzi spaccaossa di ruvidissimo death-garage suonato a tutta velocità. Come se i Germs coverizzassero i Count Five. Insomma una rovina totale, per un album immediato e senza compromessi. Uno di quei dischi da ascoltare tutto d’un fiato, come se si trattasse di una colonna sonora di rock apocalittico. Hardcore anni Ottanta e rock’n’roll sguaiato e primordiale si fondono alla perfezione lungo i solchi di questo pezzo di vinile nero. A menare le danze ci pensano una voce cartavetrata e un suono di chitarra minimale e affilato.
20) Holiday Inn – Torbido (Avant / Maple Death)
Non c’è aggettivo migliore di “Torbido” per descrivere il primo album – dopo una manciata di ottimi singoli – dei romani Holiday Inn. Paragonato spesso ai Suicide, il duo synth-punk capitolino ha davvero molte cose in comune con Alan Vega e Martin Rev. Al di là delle sonorità spigolose che trasudano dai pezzi del disco, infatti, gli Holiday Inn hanno anche uno spiccato gusto per la provocazione sonica, la radicalità e il minimalismo. Punk sotto tutti i punti di vista, anche se in questo caso il rock’n’roll viene completamente spogliato e ridotto ai minimi termini: voce martellante e sintetizzatore sono gli elementi cardine di un sound sintetico, industriale e deragliante, che non ti molla mai. E infatti “Torbido” non è per niente un disco facile, anzi è disturbante e ti mette alla prova continuamente, per fortuna. Un album indispensabile proprio per questo. Prendete un pezzo monotono e ossessivo come “Black sun”: l’anti-pop per eccellenza. Lungo tutti i 10 brani si respira un senso di decadenza totale. Il disco perfetto per un incubo distopico.