I migliori 60 dischi femminili del 2018 – Parte 3
Neko Case – Hell-on (Anti)
Con tenacia e caparbietà Neko Case è diventata una delle voci più importanti degli ultimi 20 anni, sia con i New Pornographers che da solista. Questo “Hell-On” nasce dopo aver perso la casa a causa di un incendio e dopo varie molestie da parte di uno stalker. Neko si produce il disco e aiutata da vari ospiti tra cui Mark Lanegan, Beth Ditto, K.D. Lang e A.C. Newman, confeziona un album che ricorda certi episodi di Fleetwood Mac e di Grace Slick, ovvero un pop-folk-rock ben arrangiato e ben cantato, gentile ma intenso.
Lucy Dacus – Historian (Matador)
Tra le cantautrici di nuova generazione Lucy Dacus è quella su cui molti sono propensi a scommettere sul suo futuro. Merito forse di un approccio folk-pop che sfocia in un lirismo rock parecchio enfatico (non a caso parlando delle sue canzoni i critici hanno citato i Radiohead) e di testi crudi e diretti sulle difficoltà relazionali. “Historian”, molto ben prodotto, non nasconde le velleità di successo di Lucy, come se tutta queste competizione fra colleghe servisse per spronare le giovani cantanti a dare di più. Gli ascoltatori hanno solo che da guadagnarci. Lucy è anche una delle tre “Boygenius”, di cui abbiamo parlato poco prima.
Janelle Monae – Dirty Computer (Atlantic)
Il nuovo album di Janelle Monae conferma la statura artistica della cantante, attrice e modella che impressionò critica e pubblico con i precedenti “The ArcAndroid” (2010) e “The Electric Lady” (2013). Atmosfere sci-fi (ampiamente godibili nel video-film associato al disco che potete vedere qui sopra), musica soul, funk, elettronica, hip hop e pop. Tra gli ospiti Brian Wilson, Grimes, Pharrell Williams, Zoe Kravitz. Un disco pop a 360 gradi di una artista controversa, ricca di personalità e intelligenza.
Esperanza Spalding – 12 Little Spells
A partire dal 19 Ottobre Esperanza Spalding ha pubblicato per 12 giorni una nuova canzone ogni 24 ore sul suo sito e sui suoi social network. Ogni canzone rappresenta una magia, raccontata nei video di ciascun brano e ognuna di queste magie sarà il tema di 12 concerti pop-up negli Stati Uniti. Esperanza non è nuova a queste esperienze, basti pensare che il precedente disco fu composto e registrato in 77 ore trasmesse live streaming! “12 Little Spells” è una piccola meraviglia di soul-jazz suonato con la consueta eleganza e passione che non trascura svisate rock e prog. Un disco allegro, dolce e, ovviamente, magico.
Rosalia – El Mal Querer (Sony)
Rosalía Vila Tobell è una giovane cantante di flamenco che ha scalato le classifiche spagnole con il disco d’esordio “Los Angeles” (2017). Ma pur essendo un prodotto major ha una marcia in più, e non è un caso se in chiusura di “Los Angeles” è contenuta una cover di “I See A Darkness” di Bonnie Prince Billy. “El Mal Querer”, arrivato quando il precedente disco era ancora in classifica, rivela un’artista pop che getta i ponti verso il resto del mondo, volenterosa a conquistare le chart degli Stati Uniti. Sia chiaro non si parla della classica one hit wonder e nemmeno della indie star nata su Youtube: Rosalia mescola con naturalezza folk spagnolo con le sonorità moderne evitando le classiche “tamarrate” che vengono in mente di solito con questo genere di prodotto. La versione iberica di M.I.A.?
Robyn – Honey (Konichiwa Records)
Dopo anni 8 (interroti a metà dall’EP con i Royksopp) torna la regina della dance svedese Robyn. “Honey” è un disco che suona come un album retrowave: stesse melodie oscure, synth invasivi e ritmi ballabili da aperitivo in spiaggia. La differenza è che a produrlo non è un ragazzino nerd in cameretta ma Joseph Mount (Metronomy) ed Adam Bainbridge (Kindness) e la differenza si sente. Un bel disco per gli amanti dell’elettronica “pop” e una possibile bella sorpresa per tutti gli altri.
Ariana Grande – Sweetener (Republic)
Fra tutte le stelline del pop da classifica americano Ariana Grande è sempre stata la più sottovalutata. Eppure i suoi modi davano dei segnali chiari a chi era capace di interpretarli: “fatemi crescere e vedrete”. E cosa fa crescere più di uno shock? Ed eccolo servito attraverso il tremendo attentato di Manchester in cui morirono 23 persone durante un suo concerto. Ariana dopo quei fatti non si è rinchiusa nel silenzio, nè ha fatto dichiarazioni di dubbio gusto. E mentre il mondo ha iniziato a guardarla con occhi diversi i suoi fan sono stati definitivamente conquistati a vita. Ariana non li tradisce e gli dona un signor disco: “Sweetener” è prodotto in parte da Pharrel Williams e limita al minimo le ospitate che tolgono omogeneità anche se portano milioni di visualizzazioni su youtube. E, non tanto sorprendentemente, si rivela una scelta vincente.
Adrianne Lenker – abysskiss (Saddle Creek)
Alle donne basta l’uso della voce per far male, senza bisogno delle esibizioni muscolari tipiche degli uomini. Ciò le rende altrettanto capaci di lasciare cicatrici in profondità, spesso indelebili. Adrianne Lenker lo sa bene. Il suo secondo disco solista (lei è anche nei Big Thief) è una sequenza di pugnalate ben assestate: morte, dolore, amore, abbandono sono i temi della cantautrice che armata di sola chitarra ci smuove l’anima lasciandocela sottosopra. “abysskiss” non è un disco da tutti i giorni ma è un male necessario.
Tirzah – Devotion (Domino)
I primi singoli di Tirzah furono pubblicati nel 2013 e dopo varie collaborazioni (anche con Tricky) ed essere diventata mamma pubblica finalmente il disco d’esordio “Devotion”, prodotto dalla compagna di classe Mica Levi. Il disco è una sorpresa per tutti. Moderno, ben prodotto ma anche dimesso e quasi lofi nella cruda attitudine, “Devotion” è adatto agli amanti del sound elettronico oscuro inglese, un po’ trip hop, un po’ grime, un po’ R&B, un po’ soul.
Tia Fuller – Diamond Cut (Mack Avenue Records)
Insegnante di musica alla Berklee College of Music, sassofonista nella band completamente femminile di Beyoncè, collaboratrice di Esmeralda Spaulding, candidata ai Grammy, Tia Fuller arriva con “Diamond Cut” al suo terzo disco con un curriculum di tutto rispetto. E se non bastasse all’interno dell’album troviamo musicisti di assoluto livello come Adam Rogers, Bill Stewart, James Genus, Dave Holland, Jack DeJohnette, Terri Lyne Carrington e Sam Yahel. La scelta di segnalare un album jazz ricade quindi su questo disco che ha saputo conquistare anche gli ascoltatori più esigenti.
Marianne Faithfull – Negative Capability
Dopo la serie American di Johnny Cash è diventato affascinante ascoltare album di “anziani”. Quest’anno dal lato maschile uno dei più ascoltati è stato John Prine, mentre da quello femminile non possiamo non annoverare “Negative Capability”, ventunesimo disco di Marianne Faithfull. Perchè affascinante? Perchè è come ascoltare un nonno che racconta le storie di guerra ad un giovane nipotino, intervallando i discorsi con disegni di pecore che fanno la cacca, tanto per riprendere l’attenzione del fanciullo. Le “pecore” sono i “giovani” che solitamente abbondano tra gli ospiti di questo tipo di dischi. Qui troviamo Nick Cave, Mark Lanegan, Ed Harcourt, Rob Ellis, Warren Ellis a sorreggere l’impianto sonoro che accompagnano i testi dimessi di Marianne, ricchi dei dolori di una donna anziana. Ma sempre splendente.
Josephine Foster – Faithful Fairy Harmony (Fire Records)
“Faithful Fairy Harmony” suona quasi come una antologia folk: Josephine Foster si muove tra ballate, blues, country, folk rurale, folk inglese, il tutto condito dalla sua virtuosa voce capace di scalare tonalità con estrema disinvoltura. Un’ora e un quarto di vocalizzi angelici accompagnati da chitarra, piano, arpa e autoharp.
Sophie – Oil Of Every Pearl’s Un-Insides (Transgressive Records)
Sophie Long è una producer transgender scozzese (ma di casa a Los Angeles) piuttosto quotata: ha collaborato con Madonna, Charlie XCX, MØ, Let’s Eat Grandma e “Oil Of Every Pearl Un-Insides” è il suo primo disco solista. Etereo (o meglio “Immaterial” citando una canzone presente) e sperimentale è il disco che Bjork dovrebbe fare se non fosse infatuata con i flauti. “Pop” futuristico, oscuro ma anche luminoso “Oil Of Every Pearl’s Un-Insides” è un album che è banale definire “ambiguo” e “diverso” ma di cui è difficile trovare sintesi migliore.
Let’s Eat Grandma – I’m All Ears (Transgressive Records)
Il duo Let’s Eat Grandma debuttò con l’album “I, Gemini”, quando Jenny Hollingworth e Rosa Walton avevano appena 16 anni, e fu il coronamento di un’amicizia che le unisce fin da bambine. Dopo quel disco la band fu data in pasto al marketing indie-pop incredibilmente senza creare scossoni alle due, anzi. “I’m All Ears”, secondo disco, segna una svolta verso suoni più robusti (già l’iniziale tributo a John Carpenter di “Whitewater” dovrebbe farci rizzare le antenne) e meglio prodotti (tra i registi citiamo Sophie). Tanti synth, tante melodie eteree e alcune eccentricità che rendono l’album molto più di un prodotto per le masse (ad esempio gli undici minuti space moroderiani di “Donnie Darko”).
Tracey Thorn – Record
Probabilmente il ritorno discografico di Tracey Thorn interesserà giusto ai nostalgici del triphop anni 90 ma l’ex Everything But The Girl con “Record” ha realizzato un disco moderno e ricco di buone canzoni, aiutata tra gli altri da Shura e dalla sezione ritmica delle Warpaint (Stella e Jenny Lee). Certo, molti i rimandi al passato: il synth pop è dietro l’angolo, così come le inflessioni disco (gli 8 minuti di “Sister” con la partecipazione di Corinne Bailey Rae), ma “Record” suona come un gradito ritorno con la volontà di guardare avanti.