L’Angolo Della Morte: Le 10 uscite Death Metal più significative di Aprile 2018
Nuova puntata dell’Angolo Della Morte! Ogni mese i 10 migliori dischi pubblicati in ambito Death Metal selezionati e sezionati dal misterioso Apparizione79, vero e proprio cultore del genere che in questo speciale recupera gli ascolti di Aprile 2018! Rimanete sintonizzati su Tomorrow Hit Today (magari seguendo la pagina Facebook) per non perdervi neanche una puntata dell’Angolo Della Morte!
Aprile è indubbiamente il mese più difficile per i metallari mediterranei: festival estivi ancora lontani, clima che inizia ad essere caldo e soleggiato… Insomma mese in cui si manifesta la tipica springtime depression che attanaglia i defenders più oltranzisti.
Tuttavia, dalle nostre parti, ci sono lati positivi: le ragazze iniziano a scoprire le loro grazie, i vicini di casa cominciano ad assaporare le furiose note metalliche che escono dai nostri impianti a causa delle finestre aperte, la natura è oggettivamente gradevole alla vista anche per i più integralisti amanti del buio.
Ma soprattutto, in Aprile, sono molte le band che escono con un nuovo disco, in preparazione magari dei concerti estivi, per permettere agli appassionati di valutare e apprezzare i loro nuovi sforzi e renderli consapevoli di quello che sentiranno dal vivo tra qualche mese.
Ho selezionato dieci dischi che mi sono piaciuti davvero tra i tanti usciti questo mese; alcuni arrivano a noi da band che, in realtà, difficilmente sentiremo a breve suonare dalle nostre parti vista la connotazione underground e la lontananza geografica.
Buon death metal a tutti.
1. Skeletal Remains – Devouring mortality – Dark Descent Records / Century Media
Ogni volta che mi capita di sentire un disco come questo resto meravigliato di quanto possa piacermi il death metal: gli Skeletal Remains suonano proprio il genere nella sua essenza, con tutti i suoi pregi e senza difetti, o meglio, coi difetti che troveranno tutti coloro che non apprezzano il death metal.
Siamo davanti ad un lavoro che, come i grandi album del passato, deve essere digerito con calma: al primo ascolto se ne coglie l’essenza e se ne capisce l’intento, per poter comprendere appieno il disco è necessario riprenderlo con pazienza e dedizione.
Il punto debole, mi si potrà dire, sta nel fatto che questa musica è stata già suonata in passato, con profitto, da parte di tanti altri; vero, ma questo tipo di discorsi con me non attacca: la musica è bella e basta, non necessariamente deve innovare.
Gli Skeletal Remains ci regalano un lavoro che ricorda di brutto il death metal americano primi novanta: i Death di “Spiritual healing” e gli Obituary di “Cause of death”, per citare due dischi che sono presenti in “Devouring mortality”, sia come influenza che come sonorità e costruzione dei pezzi.
Produzione ottimale che rievoca atmosfere death classiche, sezione ritmica improntata sui riffs semplici, diretti, ben eseguiti: segnalo “Parasitic horrors” e “Catastrophic retribution” come i pezzi nei quali gli SR danno il meglio di sè; la voce del cantante Chris Monroy potrebbe essere scambiata tranquillamente per quella di Chuck Shuldiner, di John Tardy o di Dan Izzo dei Nocturnus, le chitarre si cimentano in assoli spettacolari e in riffs che rimembrano pesantemente e magnificamente songs quali “Chopped in half”, “Climate control” o “Left to die”, la batteria passa splendidamente dal mid-tempo alle furiose cavalcate.
Forse, posso apparire troppo entusiasta: tuttavia, “Devouring mortality” è un album che per gli amanti del death metal rappresenta una specie di antologia del genere, tutto il meglio che le grandi bands americane sono state capaci di fare tanto tempo fa, creando il sound che contraddistingue il genere; e, per questo motivo, si erge poderoso tra le uscite di questa prima parte di annata e rappresenta un disco che tutti i deathmetallers devono ascoltare e, probabilmente, finiranno per apprezzare tantissimo.
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2. Abolishment of flesh – The inhuman conditions – Unholy anarchy Records
Mettete insieme i Dying Fetus con i Tribulation, i Cattle Decapitation con i primi In Flames e i Suffocation con gli At The Gates e, forse, riuscirete a comprendere che cosa suonano questi esordienti da Amarillo, Texas.
I nostri emergono dalla polvere del deserto ai confini col Messico con il loro album di debutto, dopo più di dieci anni dalla loro formazione e dimostrano di avere sviluppato un sound di qualità ed estrememente originale.
Niente da dire, il disco è brutal nella sua anima: passaggi veloci ai confini con il grind, voce gutturale stile Suffocation con accenni di scream tipici delle band di genere che provengono da questa zona di America, parti cadenzate imperniate sullo slam pronte a sfociare in assalti hardcoreggianti, chitarre sempre in tiro e batteria e basso che non lasciano il tempo di respirare.
Tuttavia, nei pezzi, emergono passaggi melodici di assoluto interesse, che, a tratti, rievocano sonorità quasi nordeuropee, capaci di spezzare il ritmo brutale senza essere indigesti e in grado di regalare al disco una varietà particolare che lo eleva al di sopra di altri prodotti di genere, spesso troppo inclini a rendere eccessivi tributi ai mostri sacri del settore.
Resta, come detto, un difetto che in futuro andrà corretto: le parti brutal-grind richiamano troppo un sound caro alle band provenienti dal deserto dell’ovest americano (tipo i Meathook per citarne una), ma, da grande appassionato dei Cattle Decapitation che ne rappresentano l’espressione più nota e riuscita, la questione non mi ha disturbato più di tanto.
La scommessa per il futuro degli A.O.F. sarà quella di proseguire nello sviluppo del loro sound, aggiungendo originalità e idee, senza degenerare verso evoluzioni troppo distanti dai canoni della brutalità, che rappresentano, per i texani, il punto di partenza e di riferimento.
Se i nostri dovessero riuscire nell’intento, potremmo trovarci davanti, in futuro, ad una delle migliori proposte brutali emergenti; per il momento mi godrei l’ottimo risultato del presente disco, sperando di poter apprezzare i nostri dal vivo prima o poi.
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3. Cardiac arrest – A parallel dimension of despair – Memento Mori
Ho ascoltato questo disco per due volte di fila e, forse, sarei anche andato avanti ancora se non fosse arrivato mio fratello a cena di lì a poco. E inutile dire che, per me, dischi come quello dei C.A. occuperebbero sempre i primissimi posti di qualunque classifica.
Ma devo essere obiettivo: intendiamoci, i veterani di Chicago fanno davvero un ottimo lavoro, suonano death classico da maestri, ma, come sempre accade per prodotti scarsamente innovativi come il presente, molti storcerebbero il naso se collocassi il disco al primo posto della classifica.
I nostri sono una delle band più importanti provenienti dalla prolifica, seppur underrated, Chicago, secondi per importanza e longevità soltanto ai cugini Broken Hope, con i quali condividono non solo la provenienza geografica, ma anche la tipologia di proposta musicale.
I C.A., per tutta la durata della loro ormai lunga carriera, hanno suonato, e bene, death metal in maniera classica e senza tanti compromessi: chitarre potenti capaci di creare pezzi chiari e simmetrici, batteria galoppante che non lascia respiro, basso mai troppo ingombrante e voce gutturale strisciante e distorta. Il tutto condito da una vena marcescente che ha sempre caratterizzato il loro sound, paragonabile a quell’atmosfera che si respirava nei film horror-splatter anni novanta.
Le songs più azzaccate sono “When murder is justified”, “It takes form” a “This dark domain”, ma è solo una mia opinione, dal momento che tutto il disco è eccellente.
Se possibile, i nostri hanno fatto un ulteriore step in avanti rispetto al precedente, già ottimo, “And death shall set you free”, raggiungendo una maturità compositiva difficilmente migliorabile.
Credo che, in lavori come il presente, il death metal raggiunga la sua migliore espressione: il genere è al suo top quando un disco riesce ad essere permeato, allo stesso tempo, di atmosfera rock ed epica aggressività.
Complimenti ai ragazzi dell’Illinois per essere riusciti nell’intento e averci regalato questo ottimo lavoro, che, tuttavia, non posso negare presenti il suo unico elemento di debolezza nella scarsa propensione all’innovazione che lo contraddistingue.
Aspetto che per il sottoscritto rappresenta più un pregio che un difetto, ma che trovo corretto sottolineare a favore di coloro che non hanno ascoltato l’album.
4. Golgothan remains – Perverse offerings to the void – Unsigned
Gradevolissima proposta estrema proveniente da Sidney, Australia: ho sempre apprezzato il sound orchestrato dalle bands che arrivano dal continente per noi più distante nel corso degli anni e, oggi, il varo di lavori come il presente conferma la piena salute e solidità del movimento underground australiano.
Gli sconosciuti G.R. arrivano ad autoprodursi questo ottimo cd di esordio dimostrando di avere le idee chiare e di non vergognarsi a suonare una musica pesantemente influenzata dalla terra di provenienza.
Infatti, i nostri amano andare veloce, abbinando riff tipicamente death metal con il tipico caos blackmetallico che contraddistingue le sonorità delle band australiane più importanti fin dalle origini: per meglio comprendere la proposta dei G.R., provate ad immaginare un disco dei Sadistik Exekution suonato con la tecnica e la cattiveria moderna degli Ulcerate, accompagnato da derive black che richiamano band crude e satanose tipo Archgoat o Deathspell Omega.
Chitarre riffose e molto abili a cambiare ritmo, parti cadenzate presenti ma imperniate sulla ricerca dell’atmosfera che è preludio alle caotiche aggressioni sparate che rappresentano il cuore pulsante del disco; voce gutturale degna degli Incantation, batteria davvero interessante e basso ben presente, caratteristiche che rendono il disco molto godibile e diretto, anche per la tecnica esecutiva eccellente che contraddistingue tutti i componenti del combo, con una menzione particolare per il batterista.
Le songs che hanno maggiormente colpito la mia attenzione sono l’iniziale “Vehemence”, la dissonante e cattivissima “From chaos it has come” e la veloce, aggressiva e blasfema “Golgothan remains”, dove il sontuoso lavoro della batteria nei cambi di tempo raggiunge livelli di eccellenza.
Tradizione underground locale rispettata, voce satanica, batteria incalzante, riff veloci e indovinati: i G.R., con questi 30 minuti (giusta anche la durata, oltre si rischierebbe di annoiare) di blasfemo e dissonante death-black metal hanno fatto centro.
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5. Ghastly – Death velour – 20 Buck spin
I finlandesi Ghastly giungono decisi al loro secondo full lenght mantenendo e sviluppando le ottime premesse presenti nell’esordio “Carrion of time” di qualche stagione fa.
Ci troviamo all’interno dei più cavernosi e sinistri meandri del death-doom di stampo finnico, o scandinavo che dir si voglia, anche se i nostri differiscono dai conterranei Hooded Menace per una maggiore ricerca del sound grezzo e primitivo, più simile a prodotti tipo Morbus Chron (RIP) o Horrendous per citare un paio di bands dell’ultima ora piuttosto dedite a creare una linea sonora strisciante e putrida.
Chitarre tremolanti, basso e batteria sempre diretti e solidi, voce distorta e agonizzante, l’album passa attraverso songs che alternano parti ritmate in abbondanza a sparate cattive e ben eseguite; produzione in linea con lo stile della band, con prevalenza di suoni distorti e sinistri.
Tra le canzoni migliori “Death by meditation”, “Velvet blue” e, soprattutto, la conclusiva, lunga e ispirata “Scarlet woman”.
L’album dei Ghastly a me è piaciuto molto, ricorda atmosfere passate, che erano tipiche di alcune band storiche finlandesi dell’epoca d’oro, tipo i primi Amorphis, i Barathrum, i Depravity o, per certi versi, i Convulse; essere in grado di riportare in vita, oggi, quelle atmosfere particolarmente cupe, quasi da black metal, mi ha ricordato che il death metal è bello anche quando è più introspettivo e meno diretto del solito.
Il viaggio verso la morte dei nostri è completato dal layout, che non posso fare a meno di segnalare: copertina bellissima, dai colori particolari (tipo lo sfondo del lago di “Seventh son of a seventh son”), un’ulteriore nota di merito per un lavoro di genere, rigidamente underground, che mi ha convinto parecchio.
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6. Depravity – Evil upheaval – Transcending obscurity Records
Band proveniente da un’altra zona del pianeta spesso garanzia di successo in ambito estremo: l’Australia, città di Perth per la precisione. E gli esodienti Depravity (nome poco originale già utilizzato da troppi) ci sanno fare, e parecchio: tecnica sublime che sprigiona un’energia e una cattiveria notevoli per tutta la durata del disco, peraltro ben condita da idee e capacità di composizione musicale.
Lo stile è un bel death metal senza tante storie, diretto e imperniato sul lavoro eccellente delle chitarre e sul tappeto sontuoso creato dalla batteria; anche la sezione ritmica del basso, grazie ad una produzione impeccabile e potentissima, è di valore e il vocione del cantante Jamie Kay, attivo da tempo in numerosi combos della zona, ricorda i migliori growl che ci hanno deliziato nel corso degli anni.
Riffs feroci, blast beats e tutto il resto garantiscono tradizionalità al prodotto; tuttavia, emergono anche accenni di un sound più moderno, specialmente nella vagamente slammeggiante “Repugnant”, che non disturbano minimamente, anzi rendono il lavoro intrigante e molto maturo per essere stato varato da una band composta da (non giovanissimi) esordienti.
Le songs migliori di un disco complessivamente ottimo sono, per me, la già citata, intrigante, “Repugnant”, la violenta “The great divide” e “Tormented” per il sontuoso assolo melodico che la contraddistingue.
Una volta di più, questo album debutto conferma l’Australia come uno dei luoghi attualemente più prolifici per il death metal, nonchè come uno dei paesi al mondo dove l’underground ha maggiori possibilità di crescere e rafforzarsi.
In conclusione, consiglio vivamente l’ascolto di “Evil upheaval”, uno di quei dischi che volano via velocissimi e che ci lasciano piacevolmente attaccati al divano e che, soprattutto, non annoiano, anche se riascoltati per più di una volta.
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7. Commander – Fatalis (The unbroken circle) – MDD Records
Ad evitare che nessuno di noi corra il rischio di crisi di astinenza da death metal tedesco, questo mese, hanno pensato i veterani bavaresi Commander, che arrivano al loro terzo disco dopo più di dieci anni di silenzio, dimostrando di non aver accumulato alcuna ruggine.
L’ascoltatore capisce subito che i nostri fanno sul serio dall’attacco aggressivo e possente della opener (e title track), che fa da biglietto da visita per il resto del disco: riffs furibondi e striscianti, batterista che probabilmente pesta sul doppio pedale anche mentre dorme, voce rauca e profonda, assoli che variano dal melodico al rock-trash.
La potenza furiosa delle band tedesche odierne è qui perfettamente rappresentata: le parti più lente sono imperniate sulla ricerca della durezza della parte ritmica, le cavalcate veloci (che rappresentano la maggior parte dei momenti dell’album) hanno la capacità di creare un muro sonoro poderoso e trascinante.
Menzione particolare per batterista e chitarre, ma tutta la band dimostra di avere tecnica esecutiva eccelente; produzione ottimale che permette ai Commander di sviluppare tutta la potenza di cui sono capaci e colpire con ripetuti montanti il muso del malcapitato ascoltatore.
L’album differisce da altri prodotti tedeschi recentemente usciti, tipo il bellissimo disco dei Fleshworks del mese scorso, per la mancanza di partiture melodiche; o meglio, risultano molto melodici alcuni assoli, come, per esempio, quelli presenti nella cadenzata e brutalissima “Chaos awakening”, ma non si può definire melodica la costruzione dei pezzi.
Difficile trovare songs migliori di altre: come detto, poderosa la opening, interessante la già citata “Chaos awakening”, imperdibili (per chi ama il death metal) gli stop and go con tappeto di doppia cassa di “New slave democracy”, durissima “Superbia”, particolare “And death swings the scythe”, in cui la ferocia brutale della band si alterna con intermezzi maggiormente ragionati e melodici e, per finire, veloce e classica la conclusiva “Shattered existence”.
Una menzione va fatta per il songwriting: testi di stampo politico che ci rammentano che il death metal è un genere alternativo in tutto e, quindi, non necessariamente deve parlarci di viaggi introspettivi verso il nulla eterno o divertirci con racconti horror, splatter o fantasy, ma può benissimo assumere una connotazione politico-ribelle come nel caso dei Commander.
Che dire, un disco davvero molto bello, death metal tedesco in pieno, vivamente consigliato a tutti quelli che godono quando ascoltano qualcosa di fiero e potente.
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8. Graveyard (SPA) – Back to the mausoleum – War anthem Records
I decani spagnoli Graveyard decidono di uscire con questo EP che merita, come tutta la produzione dei ragazzi di Barcellona, la nostra piena attenzione.
Si tratta di 4 songs (più una intro) composte e prodotte per celebrare il decennale dalla prima uscita dei nostri (il sontuoso “Into the mausoleum”), in perfetto stile swedish death metal: la provenienza geografica non deve ingannare, i Graveyard hanno sempre suonato (e molto bene) un tremolante death di stampo scandinavo, duro e grattante ma melodioso allo stesso tempo; velocità e riffs degni dei Grave (che direi rappresentano i principali ispiratori dei nostri), dei Bloodbath o di bands più moderne e vincenti quali gli Interment o i Demonical.
Dopo la intro, i nostri si cacciano nel più classico dei riff tremolanti nella opening “And the shadow came”, il disco prosegue per 20 minuti di chitarre distorte, sezione ritmica convincente e vociona cavernosa e cattiva; le quattro canzoni sono tutte eccellenti: la già citata, molto tirata e tradizionale, “And the shadow came”, la riffosissima “Craving cries I breath” (attenzione ad un paio di riffs blueseggianti davvero particolari), la trashosa “In contemplation” e la conclusiva “An epiphany of retribution” che rappresenta il pezzo più vario e melodico dei quattro.
Consiglio questo EP per l’eccellente qualità dell’offerta musicale e per rendere merito alla produttività importante e di livello dei Graveyard negli anni, pur non essendo un grande amante delle uscite “spezzattate”: preferisco un disco lungo, con almeno 8 songs ad EP o split con poche canzoni.
Proprio per questo non mi sento di mettere l’uscita dei Graveyard più in alto in classifica, (nonostante la qualità del prodotto lo meriterebbe) ma, allo stesso tempo, non mi sono sentito neppure in diritto di ignorarla.
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9. Vomitile – Pure eternal hate – Sathanath Records
Nicosia è l’ultima città al mondo ad essere divisa a metà da un vero e proprio muro, meno famoso e drammatico di quello di Berlino, ma reale. Ci sono stato molti anni fa: la parte greca, ricca e moderna, è separata da quella turca, povera e arretrata, dalla presenza di lunghi tratti di filo spinato e presidi militari e da zone in cui si erge una specie di muro che, in realtà, è costituito da vecchi edifici abbandonati e pesantemente segnati dal tempo.
E’ proprio da qui che provengono i Vomitile, band che seguo fin dagli esordi e che, oggi, arriva al terzo full lenght; i nostri erano partiti, con il debutto “Igniting chaos”, con uno stile di death metal estremamente brutale che strizzava l’occhio a sonorità grind caotiche che richimavano band tipo i Blasphemy o i primi Carcass; il presente lavoro è frutto di un’evoluzione che ha condotto i ciprioti a suonare un death metal più ragionato, maggiormente trash, con l’introduzione di interessanti stop and go, parti cadenzate e una vena war molto più marcata rispetto all’esordio.
Siamo in ambito tradizionale: chitarre a far da padrone capaci di rendere tutti i pezzi molto rock e godibili, batteria precisa e mostruosa, basso poco udibile e voce tendente al trash molto chiara e possente.
Ne esce un bel lavoro, personale al punto giusto: abbandonate derive troppo estreme, i ragazzi di Nicosia danno il meglio nella opener “Mass extermination”, nella veloce e aggressiva “Labeled dead” e nella conclusiva “Carnal surgery”, ma tutte le songs hanno spunti intriganti, assoli indovinati, pregevoli tappeti di doppio pedale e linee sonore chiare che rendono ogni pezzo riconoscibile dagli altri e dotato di una certa personalità.
Come tutte le band che suonano war death metal, anche i Vomitile alternano poderose sfuriate a parti ritmate più lente; il disco, nel complesso, presenta un’atmosfera death classica, con una forte vena trash che lo rende rockettoso ma brutale allo stesso tempo.
La melodia non esiste, o meglio è garantita dal susseguirsi di riffs ben strutturati che restano subito impressi all’ascoltatore dall’orecchio allenato.
Per chiudere, il tutto è tecnicamente eseguito in maniera perfetta e la produzione, chiara ma volutamente nineties nei suoni, fa il resto, rendendo il disco assolutamente meritevole di attenzione: i Vomitile ci donano mezz’ora abbondante di battaglia e guerriglia tra le strade sotto al muro che divide a metà la loro città e noi non possiamo che accogliere il regalo con soddisfazione.
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10. Petrification – Hollow of the void – Memento Mori
La label spagnola Memento Mori sta iniziando a diventare un punto di riferimento per le uscite di genere, un porto sicuro dove gli amici deathmetallers possono ancorare le proprie orecchie senza patemi.
Questo mese, dopo aver prodotto il sopracitato album dei Cardiac Arrest, la casa discografica di Saragozza si butta sull’esordio degli americani Petrification, che giungono fino a noi dalla città più importante del lontano Oregon, Portland.
Ultimamente, questa zona è garanzia di ottime cose in ogni ambito musicale (ad esempio gli Uada nel black metal): Portland è detta “The RIP City” (nomignolo che tuttavia nasce durante una vecchia partita della franchigia di basket locale, i gloriosi Trailblazers, e nulla ha da spartire con i cimiteri) o “The Rose City” (in omaggio ad una importante fiera floreale che si tiene da queste parti ogni primavera) ed è considerata una delle città più tolleranti ed emancipate di tutti gli States e questa caratteristica rivive, in effetti, anche nella sempre più vasta proposta musicale da lì proveniente.
I Petrification la buttano sul traditional: death metal lugubre e lento in vena Bolt-Thrower e Obituary, suonato con perizia e con una produzione molto vintage, forse non ottimale, ma capace di rendere appieno l’atmosfera macabra e morbosa del disco.
Chitarre riffose e molto varie che, tuttavia, forse volutamente, appaiono fin troppo prevalenti, soprattutto nelle (rare) parti veloci del disco, coprendo anche l’eccellente growl del singer, figlio di tanti ascolti death classici e omaggiante a John Tardy.
Batteria e basso fanno il loro dovere nella parte ritmica del disco, senza mai spingersi oltre l’ordinaria amministrazione ma aiutando per bene le chitarre a rendere scorrevoli le songs che si dipanano in mezz’ora (escludendo tre inutili intros) di cadenzato e putrido death metal della prima ora.
Tra le canzoni migliori troviamo la sinistra e inquietante “Hymn of Charon”, la più veloce e cattiva “Stagnation of trasmigration” e la malefica e poderosa “Desecrator of conscious entrophy”.
Lavoro che ha il suo punto di forza nella compatezza e nella durezza del muro sonoro, oltre che nell’atmosfera marcescente che riesce a creare; la debolezza sta nella scarsa personalità della proposta, ma, trattandosi di un debutto, ci si può passare sopra.
Nel complesso, gli esordienti di Portland hanno fatto il loro dovere e il disco, se lasciato all’interno dei confini dell’underground di genere, può essere decisamente considerato ben riuscito.
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