30 anni di Mudhoney: Capitolo 3 – L’era major
Dopo avervi narrato le origini della band e l’era Sub Pop, arriviamo ai primi anni 90, un decennio che passerà alla storia della discografia per tante ragioni. Una di queste è la folle corsa delle etichette discografiche alla ricerca dei nuovi Nirvana, i quali furono messi sotto contratto dalla Geffen con una discreta botta di culo pensando di avere tra le mani i nuovi Sonic Youth, e che quindi continuò con regole totalmente casuali. Nel 1990 il mondo musicale indipendente era notevolmente mutato: fondato nei primi anni 80 dagli integralismi hardcore di Bad Brains, Minor Threat, Black Flag, pian pianino le nuove leve cambiarono approccio e cercarono di sbarcare il lunario flirtando con le major. Per esempio i R.E.M., odiati da sempre dalla scena underground più inquadrata, con l’album “Green” (1988) abbandonarono la I.R.S per la Warner.
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Il primo grande tradimento avvene qualche anno prima con i The Replacements che, nel 1985, lasciarono la Twin Tone per la Sire. Con la pubblicazione di “Tim” e iniziò un processo di ammorbidimento irreversibile.
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Altri grandi “traditori” furono gli Husker Du che, dopo una carriera su SST, nel 1986 passarono su Warner per pubblicare il disco “Candy Apple Grey”.
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Come raccontato in precedenza (Capitolo 1), Mark Arm e Steve Turner, fin dai tempi dei Green River, erano l’anima pura, quella non incline ai compromessi, quella per cui non valeva la pena vendersi. Le band di Seattle, invece, stavano scendendo tutte a patti con le major. I primi furono i Soundgarden che abbandonarono Sub Pop dopo due EP, passarono su SST il tempo di garantirsi una credibilità indipendente con Ultramega Ok (1988) e infine firmarono con la major A&M. Nel 1989 pubblicarono Louder Than Love, e lì rimasero per tutta la carriera.
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Dopo di loro furono i Mother Love Bone, ovvero gli ex Green River Stone Gossard e Jeff Ament in versione glam/hardrock/protoPearlJam, a trovare un contratto con la Polygram. La loro carriera però durò poco perchè il cantante Andy Wood morì di overdose di eroina prima che il disco d’esordio “Apple” uscisse nei negozi. Vicini di “scena” ma con un retroterra metal/glam erano anche gli Alice In Chains che nel 1990 pubblicarono l’esordio Facelift per Columbia, senza neanche passare per un singolino indipendente. Ma a loro, a digiuno dei dogmi hardcore, queste menate importavano poco.
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Da lì a poco sarebbero arrivati i Pearl Jam (che dal fallimento MotherLoveBone non ci misero molto a trovare un’altra label a produrre il nuovo progetto con un nuovo cantante di San Diego, Eddie Vedder) ma soprattutto i Nirvana, che con “Nevermind” cambiarono le sorti di tutta la musica in pochi mesi. In tutto questo viavai i Mudhoney, duri e puri, stavano ancora aspettando gli assegni dalla Sub Pop, mentre i due capi della label cercavano di stare a galla e contemporaneamente mettere sotto contratto gli Afghan Whigs. Dopo la pubblicazione di “Every Good Boy Deserves Fudges” si misero quindi in cerca di una maggiore tranquillità economica e dopo un paio di trattive con altre label scelsero la Reprise. Teoricamente doveva essere un buon affare: già spinti dalla stampa inglese in tempi non sospetti e in pieno boom “in cerca dei nuovi Nirvana” chi meglio dei Mudhoney potevano essere la next big thing? Peccato che lo erano appunto già stati con il singolo “Touch Me I’m Sick” e con l’EP “Superfuzz Bigmuff”. Ma ai quei tempi le label potevano anche permettersi il lusso di sbagliare: tanto i dischi si vendevano lo stesso.
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Nel 1992 uscì la commedia romantico/musicale ambientata a Seattle “Singles” e la colonna sonora fu un autentico successo. All’interno troviamo la prima canzone major della band ed è ovviamente un tributo musicale a Seattle: “Tutti ci amano, tutti amano la nostra città, ecco perchè sto pensando che sia arrivato il momento di andarmene”. Molto grunge come approccio, ma anche molto nelle corde sarcastiche di Mark.
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Il disco “Piece Of Cake” (che in slang significa “facile da fare”) viene trattato come un dischetto, eppure a suo modo è il più sperimentale e vario della band. Probabilmente scritto con facilità e fretta ma canzoni come “Suck You Dry”, “No End In Sight”, “Blinding Sun”, “Living Wreck” sono degli autentici classici.
Produzione impeccabile di Conrad Uno, brani che hanno lo slancio moderno degli anni 90 con alti e bassi, chiari e scuri, ritornelli urlati e tempi da polverone sotto il palco, il disco ovviamente non se lo filò nessuno. Un sacco di stranezze rendono l’album vicino alle sperimentazioni major dei Melvins dello stesso periodo, anzi diciamo che in un certo senso la carriera major delle due band si equivalgono sia in qualità che come proposta sbilenca.
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Il biondo Mark gioca ad essere la versione cinica, pura e reale di Kurt Cobain ma a pochi nerd interessa una lezione di vita da un altro loser.
Reprise nel 1993 pubblica “Five Dollar Bob’s Mock Cooter Stew”, un EP registrato prima di Piece Of Cake da Kurt Bloch dei Fastbacks. Il classico disco che finirà dopo poco tempo nei cestoni a pochi centesimi. Il sound ricorda un po’ una versione cruda della band, ma suona con il freno a mano tirato e le canzoni sono un po’ troppo lunghe. Consigliato giusto ai completisti.
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Nel 1994 il grande gioco del grunge si rompe: Kurt Cobain si spara e lo shock non esclude nessuno. Detrattori, fan, curiosi, si ritrovano senza parole (o con troppe parole) intorno al cadavere ventisettenne del leader dei Nirvana. Il mondo musicale reagì come potè: i Mudhoney registrano “My Brother The Cow”, il disco più velenosamente “grunge” . Mark non le manda a dire, si scaglia contro tutti, un po’ come fecero i Pearl Jam in Vitalogy. L’industria discografica aveva giocato con la musica ma i musicisti della “scena” non erano semplicemente dei drogati sforna hit da copertina di riviste teeny come erano stati venduti. Lanciati da Mtv, buttati in pasto ai pre adolescenti, intervistati da vuoti giornalisti gossipari: era quello che sognavano quando decisero di formare una band?
“My Brother The Cow” è il disco più Nirvaniano: un sound corposo e heavy registrato dal vecchio saggio grunge Jack Endino, ritornelli urlati, tempi duri, ballate super distorte e lasciate sospese, senso di apocalisse e parecchio scazzo rabbioso. I Mudhoney appaiono come quegli homeless che annunciano l’imminente apocalisse e godono a lanciare sventure ai ricchi borghesi.
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“My Brother The Cow” (1995) chiude virtualmente una fase nella carriera dei Mudhoney, quella major anche se in pratica serve ancora un disco per liberarsi del contratto Reprise. Non ci sono gossip, pose o chissà che possa generare nuovi fan e il pubblico dei Mudhoney rimane troppo scarso per i numeri della Reprise. La band raramente riesce a fare tour da headliner e spesso suona di spalla ai vecchi amici Pearl Jam ma ai fan della band di “Ten” del periodo non piacciono. Entrambe le band stanno via via trasformandosi in qualcosa di diverso: più maturi, tendenti alla auto protezione, in qualche modo cercheranno di scremare il pubblico “guadagnato” negli anni della sbornia dei Seattlemaniaci.
Sono cose che per molti sono difficili da capire, e anzi vengono criticati ancora adesso. Ma per chi frequenta la scena il suicidio di Kurt è basato principalmente sul diventare qualcosa che hai sempre odiato. Per chi dà un valore alla propria arte o al proprio messaggio, vederlo dato in pasto alla casalinga annoiata per generare sempre più denaro è la peggiore tortura. I Pearl Jam chiusero con le interviste e i videoclip, in tempi pre internet praticamente voleva dire sparire. Per promuoversi inventarono una radio privata, chiamata Self Pollution, dove invitarono la band di Mark Arm a promuovere il disco. I Mudhoney erano arrivati ad odiare loro stessi per lavorare in una azienda che non li considerava minimamente.
“Tomorrow Hit Today” (1998) disco finale della fase Reprise della band, fu stampato in vinile per la piccola etichetta del chitarrista Steve Turner, la SuperElectro, che in proporzione pubblicizzò meglio il disco di quanto fece la Reprise. Il disco fu presentato proprio durante una puntata della radio pirata di Eddie Vedder, questa volta chiamata Monkey Wrench.
L’album è stato registrato allo Studio Litho di Seattle da Adam Kasper e tra gli assistenti tecnici troviamo Matt Bayles che diventerà anni dopo il guru del post metal registrando Isis, Mastodon, Russian Circles, Botch (LEGGI: Hydra Head, generazione post hardcore) . Alla produzione troviamo Jim Dickinson, che in passato lavorò con i Rolling Stones. Le sonorità sono finalmente rilassate, la band confeziona il disco più classic rock mai fatto, sorprendentemente adatto al pubblico anziano della Reprise, se solo l’avessero ascoltato! Non c’è la ricerca del ritornello, del tempo serrato, dell’effetto sorpresa e tutto gira liscio come non mai.
L’album è l’unico della discografia della band ad essere fuori catalogo ed è un’autentica vergogna. Dopo averlo pubblicato, Reprise licenziò i Mudhoney che purtroppo vengono pure lasciati dal bassista Matt Lukin, il quale dichiara di aver perso la voglia di suonare da parecchio tempo ma che gli dispiaceva dirlo ai compagni.
Il sipario sembra calarsi definitivamente nella sbilenca carriera dei Mudhoney. Fino a qui hanno sempre sfiorato il successo senza mai raggiungerlo. Si sono trovati sempre affianco ai giganti senza mai avere la possibilità di diventarlo. Volutamente? O è solo sfortuna? Lo scopriremo nel prossimo capitolo.
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