30 anni di Mudhoney: Capitolo 2 – Gli anni SUB POP

Sub Pop naque come fanzine nei primi anni 80 da un’idea di Bruce Pavitt, grande appassionato di scene locali e musica underground. Le prime uscite discografiche furono delle compilation in cassetta allegate alla fanzine Subterranean Pop: classica copertina di Charles Burns e una discreta quantità di band che rimangono sconosciute anche a distanza di 35 anni. Il gusto di Bruce era già chiaro in quelle prime produzioni: rock primitivo, punk, folk sbilenco, noise e industrial. Conobbe lo speaker radiofonico Jonathan Poneman dopo aver pubblicato Sub Pop 100 e sotto consiglio dell’amico Kim Thayil (chitarrista dei Soundgarden) i due si misero in società. La prima uscita dei due fu il secondo EP dei Green River Dry As A Bone, poi il primo EP dei Soundgarden Screaming Life e via via scoprirono tutto l’underground locale (TAD, Swallow, Blood Circus, Nirvana, Fluid).

 

Quando i Green River si sciolsero fu normale per Mark Arm andare a bussare alla porta della Sub Pop per proporgli di produrre il nuovo progetto con Steve Turner: i Mudhoney. La Sub Pop era appena nata ma fin da subito si trovò a sperperare i pochi soldi che aveva. Diede 1660 dollari alla band per registrare 5 pezzi con Jack Endino praticamente sulla fiducia. Nel mentre Arm e compagni iniziarono a fare i primi concerti a Seattle di spalla a band “grosse” come White Zombie e Das Damen. In città, complice anche la grande quantità di droghe che circolavano, iniziava ad esserci parecchia eccitazione per la musica e la Sub Pop voleva in tutti i modi testimoniare il fermento.

La prima uscita ufficiale dei Mudhoney fu il leggendario singolo “Touch Me I’m Sick / Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More” pubblicato in vinile 7″ marrone in 800 copie:

Il singolo, non credo ci sia bisogno di dirlo, è uno dei migliori di tutti i tempi. Citazionista dell’impatto garage sixties (Sonics), un po’ Stooges, ma con carattere e tematiche moderne. Semplicissimo e per questo ricco di energia. Il lato B “Sweet Young Thing Ain’t Sweet No More” ha il tempo drogato del grunge, i suoni noise, il beat del rock ma senza la pesantezza hard/metal dei Green River. La credibilità punk era quindi in salvo e Sub Pop poteva dormire sonni tranquilli: avevano la band di punta!

 

Ai tempi i Sonic Youth erano un po’ i padrini della scena indipendente americana: se piacevi a Thurston Moore allora giornalisti, etichette ed ascoltatori sarebbero diventati vostri fan. Ecco perchè Sub Pop mandò in anteprima i 5 brani registrati dai Mudhoney ai Sonic Youth. Neanche tanto incredibilmente piacquero a tal punto che la band di New York propose un singolo split con le band che si coverizzavano a vicenda. I sonici si lanciarono in “Touch Me I’m Sick” mentre i Mudhoney si cimentarono in Halloween.

Il singolo venne pubblicato negli USA da Sub Pop, in Europa ci pensò la nuova partner distributiva Glitterhouse e nel Regno Unito fu marchiato Blast First. Nel mentre che Sub Pop trovava modi originali per attrarre attenzione su di sè, i Mudhoney si lanciarono nel loro primo tour americano che fu, ovviamente, un autentico disastro. La band si trovò in una situazione solo leggermente migliore di quando girava con i Green River ma altrettanto sfibrante e frustrante. Poco il pubblico, quasi nessun comfort e viaggi al limite dell’assurdo. La Sub Pop, infatti, gli comprò un furgone che cadeva a pezzi rendendo gli spostamenti un incubo. I pagamenti? Come vi sembrano 14 dollari, due pacchetti di sigarette e un six pack di Sprite?

Ma con l’uscita del primo EP Superfuzz Bigmuff le cose iniziarono a cambiare. I Sonic Youth presero la band sotto l’ala protettiva e se li portarono in giro per Stati Uniti e Regno Unito, le recensioni iniziarono ad incensare la band e il pubblico ad aumentare. La macchina promozionale della Sub Pop iniziò a girare sfruttando l’entusiasmo degli Inglesi e i Mudhoney divennero la “next big thing” in pochissimo tempo! Anzi erano la big thing!

 

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Superfuzz Bigmuff è iconico fin dal titolo: due gloriosi effetti di chitarra a spiegare il contenuto dell’album. La foto di copertina con la band ripresa dal vivo da Charles Peterson con capelli al vento dava l’idea di energia e sudore. Ma soprattutto è in linea con l’immaginario Sub Pop di quegli anni. E la musica? Nei sei brani che compongono l’EP ci sono già tutti gli ingredienti che renderanno i Mudhoney quello che sono ancora adesso: ritornelli epici, ritmi rock scanzonati, chitarre garage piuttosto grezze, assoli al confine con il noise. Niente di strano verrebbe da dire. Di band come loro teoricamente ne è pieno il mondo. La differenza la fanno il piglio live del disco, le canzoni immediatamente dei classici, le ballate acide.

La stampa inglese ci mise il suo per rendere il disco un classico, così come il famoso dj della BBC John Peel che li invitò in una radio session che convinse tutti della bontà della band anche dal vivo.

Finalmente, nel 1989 arriva il tanto atteso disco d’esordio!

La band ritiene il disco un lavoro frettoloso e probabilmente l’ansia da prestazione può aver contribuito ma c’è da dire che è un album molto buono (come tutti quelli della loro discografia, in realtà). Il grunge che avevano creato è decisamente più orientato ad un heavy rock di scuola settantiana alla Blue Cheer (che infatti tributano con la cover “criptata” di Magnolia Caboose Babyfinger, che diventa Magnolia Caboose Babyshit). E’ un disco che testimonia come i Mudhoney abbiano un sound definito pur citazionista: gli assoli stralunati di Steve Turner, la batteria selvaggia di Dan Peters, i testi e le linee vocali di Mark Arm, il basso di Lukin che sostiene tutta la baracca. Impossibile citare un brano rispetto ad un altro: sono tutti dei classici.

 

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Ovviamente, come succede da decenni, la stampa inglese si stufò dei Mudhoney, non più la next big thing ma solo dei borghesi annoiati che fanno rock. La Sub Pop stava arrancando come al solito e allo stesso tempo cercava di trovare la prossima miniera d’oro. In quel momento stava infatti corteggiando gli Afghan Whigs mentre i Mudhoney aspettavano invano gli assegni per i dischi venduti. Decisero quindi di staccare la spina per un po’. Steve tornò nuovamente al college e Dan Peters entrò brevemente nei Nirvana, con cui registrò la leggendaria Sliver. La band di Kurt era però imbarazzata nel suonare con il batterista della loro band preferita così senza dirgli niente reclutarono Dave Grohl. Per fortuna i Mudhoney si rimisero insieme dopo poco ma è anche vero che da lì a poco i Nirvana divennero giganteschi. Mark Arm nella pausa dalla band madre registrò un singolo solista coverizzando Masters Of War di Bob Dylan.

 

La band si rimise insieme ma volle i soldi che gli spettavano dalla Sub Pop. Peccato che Pavitt e Poneman non avessero un centesimo e, anzi, erano pieni di grane. Iniziò quindi un periodo di tensioni fra persone che comunque si stimavano ma che avevano l’ingrato compito in quel momento di lavorare assieme. Dopo tanti rinvii decisero comunque di pubblicare “Every Good Boy Deserves Fudges” per Sub Pop. Ma già si capiva che l’ambizione li stava portando altrove: copertina diversa dalla classica foto mossa con i capelli al vento, produzione garage di Conrad Uno, canzoni sì urlate ma meno heavy rock, anzi più vicine al punk. La band pubblicò il disco per Sub Pop un po’ per riconoscenza, un po’ per salvarli dalla bancarotta. E così fu.

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I Mudhoney ora dovevano cercarsi una etichetta. E per una band già masticata e sputata dalla stampa non sarebbe stato facile. Nel mentre uscirono ancora un paio di singoli per Sub Pop e “Every Good Boy Deserves Fudges” finalmente fu pubblicato nel 1991, anno magico per Seattle.

Ma lo scopriremo nel prossimo capitolo!

Ti sei perso l’inizio? Leggi il primo capitolo: Le Origini.

 

 

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